Michele Masneri, Studio, n.14, maggio/giugmo 2013, 11 luglio 2013
LA PARTICELLA IN DE
Può accadere a tutti i possessori di borghesi cognomi in De, o Di (maiuscolo); andare a un convegno, scrivere un articolo, dirigere una testata: trovarsi improvvisamente il cognome ridotto in de o di, minuscolo. Ridotto spesso a propria insaputa, da dipendenti, organizzatori, ammiratori, che traslitterandoci vogliano nobilitarci. Càpita. Pochi se ne accorgono, qualcuno anzi si affeziona al suo nuovo cognome minuscolo, e se lo porta dietro, a propria insaputa, per una intera carriera. Distinguere un de da un De e un di da un Di è poi molto complesso, «non essendo la particella, solitamente seguita dall’indicazione del patronimico, o del luogo d’origine o del feudo – prova e nemmeno semplice indizio di nobiltà» (enciclopedia Treccani).
In paesi più seri come la Germania, la particella araldica (minuscola) fa parte del cognome e lì si distingue ulteriormente tra il von che indica l’origine di un feudo – e lo zu, che indica il possesso continuo di quel feudo. Anni fa, si ebbe modo di parlare con Ira Fürstenberg che tenne a ribadire a proposito: "io sono una principessa vera, mica come tutte queste finte che si vedono in giro!", mostrando un passaporto col nome completo di Virginia Carolina Theresa Pancrazia Galdina Prinzessin zu Fürstenberg (sua madre Clara Agnelli si era poi risposata con l’eccentrico mantovano Giovanni Nuvoletti, che per colmare il gap si era fatto adottare da un conte Perdomini in punto di morte. E il soprannome fu subito: l’autonobile Fiat).
In alcuni casi però è facile distinguere: il di di Tomasi di Lampedusa non è lo stesso del Di di Di Canio: e lo stesso Lampedusa era a conoscenza delle smanie sottintese a certi cambiamenti cognomici. "Il casato è antico o finirà con l’esserlo" – fa dire al principe di Salina a proposito del futuro parente burino e nouveau riche don Calogero Sedara, papà di Angelica. E lo stesso Sedàra, al momento di presentare le credenziali a don Fabrizio, sostiene impunemente che "un giorno si saprà che vostro nipote ha sposato una baronessina Sedara del Biscotto", poiché ha le carte in regola per far passare il titolo dal Re Ferdinando IV, gli manca "solo un attacco". Lampedusa, forte del suo di principesco (oltre che principe di Lampedusa, anche duca di Palma), infieriva poi nel Gattopardo che "quello degli attacchi mancanti, delle quasi omonimie, era, cento anni fa, un elemento importante nella vita di molti siciliani, e forniva alternate esaltazioni e depressioni a migliaia di persone".
Ma l’ossessione per la particella "de" non è esclusiva sicula o italica, e trapassa i secoli. Balzac, per il quale semplicemente ogni cambiamento di classe sociale (non solo follow the money ma follow the titles) era il magico "clic" che dava vita a una storia romanzesca, aveva incarnato il destino del povero Lucien de Rubenpré nel suo essere privato alla nascita del suffisso nobiliare (e ascesa e riconquista del suo posto nel mondo avrebbero coinciso naturalmente col riacquisto della particella). Balzac stesso, coerentemente, decise di aggiungersi un "de", sostenendo d’essere titolato a portarlo in quanto discendente dei Balzac d’Entrague, antica stirpe di cavalieri della Gallia. Una parentela immaginaria frutto solo «del desiderio del grande romanziere» su cui il padre, borghese orgoglioso del suo status, aveva sempre ironizzato, ma su cui il piccolo Honoré non scherzò mai, come racconta Stefan Zweig nella biografia appena riedita da Castelvecchi. E l’autore della Comédie Humaine andò oltre, apponendo persino lo stemma dei Balzac d’Entrague sulla carrozza, incurante del ridicolo e anche quando la sua grandezza non aveva più bisogno di alcun "de" di supporto.
Del resto il fascino del de attraversa i secoli: nella Recherche, i demi-mondaines del clan Verdurin vivono nella paranoia dei "noiosi", cioè gli aristocratici che Charles Swann frequenta di nascosto, e ai cui circoli non sono ammessi. Il dottor Cottard, membro del cenacolo, in particolare si chiede come siano veramente questi "de"; e perfino sul modo di pronunciare il "de" arrivano i guai. Sorge infatti tutta una questione che fa molto spazientire Swann e che prelude ai tradimenti di Odette e alla sua sfortuna mondana presso gli aspirazionali Verdurin.
Quando si secca dei continui commenti rosiconi dei Verdurin sui suoi amici duchi de La Tremoïlle, con un climax di snobismi da volpe e l’uva a parte degli adepti («la duchessa beve, il duca è talmente ignorante che non sa che George Sand è una donna», eccetera) Swann parlando con il conte de Forcheville prende infatti le difese dei suoi amici La Tremoïlle; e qui i Verdurin non capiscono più niente, a partire dal dato lessicale. Verdurin marito «si era accorto che più volte Swann e Forcheville avevano soppresso la particella davanti a quel nome». I borghesi Verdurin non sanno bene come trattare questo de (se si pronuncia, e quando), e sbroccano sospettosi: madame, «sicura che l’avessero fatto per dare a vedere che non erano intimiditi dai titoli, avrebbe voluto imitare la loro dignità, ma non aveva ben afferrato la forma grammaticale attraverso la quale essa si manifestava. Così, il suo difettoso modo di esprimersi avendo la meglio sull’intelligenza repubblicana, diceva ancora "i de la Tremoïlle", o meglio, con un’abbreviazione dissimulante il "de" utilizzata nei testi delle canzoni da caffè-concerto e nelle didascalie dei caricaturisti, "i d’la Tremoïlle", salvo poi rivalersi dicendo " Madame la Tremoïlle"», e poi infine, stremata: «La duchessa, come dice Swann»; ma «ironicamente, con un sorriso, per significare che la sua era una semplice citazione e che personalmente non avallava certo una designazione così ingenua e ridicola». Insomma, la particella va maneggiata con cura. Poi, alla fine, ognuno dovrebbe chiamarsi come più gli piace poiché, come scrive Zweig a proposito di Honoré (de) Balzac, «la poesia vince sempre la storia».