Piero Alberto Capotosti - Ernesto Galli Della Loggia, Corriere della Sera 11/07/2013, 11 luglio 2013
LA CONSULTA E IL RISPETTO DELLA LEGALITA’
Caro direttore, apprezzando la linea editoriale del Corriere della Sera, leggo sempre con molta attenzione i contributi più importanti che spesso condivido, ma debbo purtroppo dire che negli ultimi giorni sono rimasto molto sorpreso dall’editoriale di Galli della Loggia (del 7 luglio) e da un precedente articolo di Sergio Rizzo (del 4 luglio), accomunati da un duro attacco al ruolo assunto dalla Corte costituzionale e dai giudici, in generale. Naturalmente so bene che la libertà di critica è costituzionalmente tutelata. Ma mi chiedo quanto costituisca libertà di critica l’opinione che prende lo spunto dalla recente sentenza della Corte costituzionale, che ha annullato l’accorpamento delle Province disposto con decreto legge, per affermare che nelle vicende politiche italiane sempre si resta in attesa della pronuncia giudiziale «suprema spada di Damocle, perennemente agitata e perennemente sospesa su ogni atto della Repubblica». O per affermare che non c’è decisione politica «che non corra il rischio di finire sotto la tagliola della Consulta, del Tar o del Consiglio di Stato».
Ma veramente le pronunce della Consulta e dei giudici per il rispetto del principio di legalità possono essere considerate come «una spada di Damocle», o peggio, come «una tagliola»? E come si può affermare che l’immobilismo in cui sta morendo l’Italia è il frutto avvelenato dell’eccessivo «potere di veto delle oligarchie giuridico-amministrative»? Si ha quasi l’impressione che vi sia una sorta di insofferenza per la cultura della legalità, che come è noto rappresenta l’effettivo fondamento dello Stato di diritto. Negare, nella specie, che il governo possa abolire le Province con un decreto legge, non è una «capziosità da leguleio», o un mero formalismo, vuol dire invece evitare lo stravolgimento dei principi costituzionali, precludendo possibili forme di onnipotenza legislativa dell’esecutivo e garantendo le competenze in materia al Parlamento e dei cittadini. Vuol dire il pieno ripristino di quel sistema di checks and balances, che è essenziale in ogni democrazia matura. La funzione garantistica delle Corti costituzionali si esplica infatti a 360 gradi.
In questa ottica va ricordata la decisione con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti nel 2000 assegnò, superando le varie forme di riconteggio dei voti popolari espressi alle elezioni presidenziali, la vittoria a Gorge W. Bush su Al Gore. E nella medesima ottica vanno anche ricordate, in particolare, le due decisioni della Corte costituzionale tedesca del 2011 e del 2012, che inibiscono il vincolo automatico sul bilancio statale di provvedimenti di organi della Ue, anche se riferiti al meccanismo di stabilità europeo, senza una specifica approvazione del Parlamento tedesco. E nessuno ha mai affermato, in quelle occasioni, che la democrazia era in crisi profonda per il sovrapporsi «di fatto di un potere di veto, oligarchico ed autoreferenziale, di natura castale». È proprio questa configurazione dell’intervento del giudice — costituzionale e no — che avverrebbe in modo del tutto svincolato da ogni regola e puramente in via «di fatto» che non posso assolutamente condividere, anche perché, per certi tratti, mi sembra evocare l’epoca della notissima invettiva di Renzo Tramaglino, nei Promessi Sposi, contro il latinorum dei potenti.
So bene che a questa mia critica probabilmente si opporrà che non sono imparziale, avendo anche io fatto parte della stessa «casta». Ma spero così di avere sottratto almeno questo argomento alla replica, che quasi certamente seguirà a questa mia lettera.
Piero Alberto Capotosti
Presidente emerito della Corte costituzionale
Piuttosto che aderire alla cultura della legalità (un’espressione equivoca di origine politico-partitica) preferisco cercare di rispettare le leggi. Comunque anche la suddetta cultura non può voler dire, immagino, l’obbligo di giurare sulla bontà e dell’infinito numero di norme e del sistema giudiziario-costituzionale (per es. la possibilità del ricorso ai tre gradi di giudizio per tutte i procedimenti) vigenti nel nostro Paese. Ho scritto io per primo che in uno Stato di diritto le leggi si devono applicare, ma molte di quelle che vigono in Italia vanno cambiate (è ammissibile per esempio il ricorso al Tar contro una bocciatura scolastica?). Così come vanno cambiati per alcuni loro aspetti l’ordinamento giudiziario e quello del Csm (per es. il suo sistema elettorale), e per alcune sue parti la Costituzione. Così almeno la pensano moltissimi cittadini italiani, ma è davvero singolare che non capiti quasi mai di ascoltare, tra le loro voci, quella dei rappresentanti del mondo giudiziario.
Ernesto Galli della Loggia