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 2013  luglio 11 Giovedì calendario

FRENATI DALLA PAURA DI RISCHIARE

Non si può pensare di uscire dalla crisi se non si rifondano istituzioni, politiche e abitudini mentali. Se non ci si rimette in gioco. Non basta riformare ritoccando. Non basta grattare la superficie.

Tutti hanno paura e si limitano ad aspettare tempi migliori.
I partiti hanno paura di cambiare e ancora non hanno capito che la smisurata mobilità elettorale generata dal disincanto può essere un’opportunità se viene interpretata, se no rischia di travolgerli.

I sindacati giocano di rimessa, con un silenzio che stupisce (lo spiega bene Roberto Mania nell’ultimo numero della rivista Il Mulino). Anche loro in posizione di attesa mentre continuano a perdere iscritti, come Confindustria. Le famiglie hanno il timore di non farcela. Chiudono la porta di casa e si proteggono, centellinando spese e consumi.

In questo clima non c’è da stupirsi che le giovani generazioni siano sempre più scoraggiate. Rinunciano a cercare lavoro perché pensano che non ne valga la pena. Un giovane su quattro: 2,2 milioni di persone inattive, parcheggiate all’università o in famiglia. Si sceglie l’università sotto casa, perché tanto è uguale alle altre, per evitare i costi dello spostamento, e si finisce per andare ad abitare a pochi metri dai genitori, con la speranza che diano una mano (è L’Italia fatta in casa raccontata da Ichino e Alesina). Quando poi arrivano i figli, molte mamme rinunciano a lavorare per non dover pagare una babysitter o l’asilo nido, con una sequenza di svantaggi futuri consistenti.

La generale riluttanza a prendersi dei rischi genera circoli viziosi da cui è difficile uscire. E la propensione ad andare sul sicuro non è una strada per il futuro. Quello che serve è esattamente l’opposto. Avere il coraggio di inventarsi un lavoro piuttosto che aspettarlo. Cercare le sfide invece delle garanzie. Sarà vero il motto manzoniano che «il coraggio uno non se lo può dare», ma il premio Nobel Douglass North ci ha insegnato che le istituzioni (in senso lato) contano. Aiutano lo sviluppo se contribuiscono a ridurre i costi di transazione, l’incertezza sul contesto di regole e risorse disponibili, facilitando l’assunzione calcolata dei rischi.

«La differenza principale tra i giovani imprenditori italiani e quelli americani è che i nostri non possono fallire. Negli Stati Uniti su 10 start-up solitamente una ce la fa; 2 vivacchiano e 7 muoiono. Da noi deve essere buona la prima. Non c’è la cultura del fallimento, del riprovarci per prenderti la rivincita». Così mi racconta Luca Panini, ad dell’omonima società leader nell’editoria per l’infanzia. Anche gli investitori, i business angels, tendono a selezionare solo le idee sicure. Raramente scommettono su una start up se non sono sicuri di vincere. Quindi quasi mai.

Una visione condivisa anche da altri imprenditori, soprattutto di piccole dimensioni, che puntano il dito contro la burocrazia. «È come se lo Stato ti dicesse: ma come ti permetti di creare un’azienda? Ma lo sai che si contano 104 obblighi per poter partire, che il costo del lavoro è più alto del 30% degli altri Paesi, i costi dell’energia pure e ovunque ti giri ci sono norme che ti ostacolano?». Mentre i grandi imprenditori, impegnati in progetti necessariamente ambiziosi, lamentano interventi per la ricerca di tipo assistenziale, con finanziamenti a pioggia (pochi soldi per molti, distribuiti a caso) quando occorrerebbe concentrare le risorse su pochi soggetti in grado di fare veri salti di qualità.

Le scelte pubbliche che deprimono i comportamenti virtuosi le conosciamo del resto da tempo. Se ce ne fosse stato bisogno, le ha ricordate Standard & Poor’s l’altro ieri. La bassa competitività del nostro Paese deriva in gran parte da rigidità domestiche: costi dell’energia più alti che nell’Eurozona, disallineamento tra salari e produttività, tasse sul lavoro più elevate di quelle sulla casa e sui consumi (leggi: togliere l’Imu e bloccare l’Iva è irrazionale), costi amministrativi non sopportabili. E la politica di oggi, vanno giù duro gli analisti, non è in grado di affrontare i problemi, per le sue divergenti visioni. Una fotografia impietosa che sembra essere stata scattata ieri. Nell’aula di Montecitorio.