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 2013  luglio 09 Martedì calendario

I FILOSOFI SI RICREDONO: L’AMORE E’ BELLO SOLO IN COPPIA

L’«io è un altro», ovvero il proble­ma dell’identità, fu per Romain Gary una tagliola intellettuale. «Per trovarsi bisogna innanzitutto crear­si» aveva scritto, ma nel tempo la creazio­ne si fece incessante e quando si hanno tante esistenze si corre il rischio di non averne nessuna. Nel 1967, alla domanda «dove vorrebbe vivere» postagli da un mensile francese aveva risposto: «Dap­pertutto, contemporaneamente, e den­tro tutti, in un milione di vite». Interrogato su chi sarebbe voluto essere, aveva però replicato: «Romain Gary, ma è impossibile».
Va detto che il fisico non l’aiutava, nel senso che contribuiva ancor più a confondere le acque; il modo di fare e le frequentazioni, neppure. Era uno scrittore, ma sembrava un attore, era un diplomatico, ma sembrava un píca­ro, era un difensore delle donne, ma ve­stiva come un gigolò. Console genera­le di Francia a Los Angeles, la stampa lo­cale insinuò che fosse soprattutto «un addetto sessuale» al servizio del bel mondo di Hollywood; un sondaggio ra­diofonico in patria equiparò il suo no­me alla qualifica di «donnaiolo». Al­l’epoca era il marito di Jean Seberg, l’adolescente bellezza di Bonjour tri­stesse e di À bout de souffle , un quarto di secolo più giovane...
Era stato un eroe di guerra, Gary, ma non gli era bastato. Sarebbe voluto es­sere una specie di coscienza morale della nazione. Era divenuto uno scritto­re di successo, ma nemmeno questo gli era sembrato sufficiente. Sarebbe voluto essere un intellettuale, un maître à penser. Intanto il tempo passa­va, e per chi a 46 anni aveva già scritto la propria biografia, la sensazione di sen­tirsi e di apparire un sopravvissuto di­veniva lancinante. «So che per l’essen­ziale sono stato e non sarò più» scrive­rà allora. «Ho avuto in sorte un destino troppo breve» confesserà a un critico.
Eppure, fino a quel 1980 in cui, a 66 anni, si tolse la vita con un colpo di pi­stola, l’«io è un altro» di Gary non rinunciò alla propria moltitudine, come se il suo feroce vitalismo fosse insieme l’an­tidoto e la malattia. Le prese di posizio­ne pubbliche, con annessi scontri e po­lemiche, così come le stesse vicissitudi­ni private (divorzi, dimissioni, insuc­cessi professionali) rimandano sem­pre e comunque all’idea di un gladiato­re nell’arena, uno che può essere scon­fitto, ma non accetta mai di darsi per vinto. «Non ho amici» aveva dichiara­to fieramente in un’intervista modulata sul Questionario di Marcel Proust; «Mi prende in giro o cosa» aveva ironiz­zato nel rispondere alla domanda su come sarebbe voluto morire. «In nes­sun modo» aveva poi aggiunto.
Di questo ebreo per parte di madre, nato in Lituania, naturalizzato france­se, cosacco e tartaro per supposte ascendenze paterne, poliglotta, avven­turiero e seduttore, un bel compendio lo dà ora Delle donne, degli ebrei e di me stesso (Neri Pozza, pagg. 143, euro 12,50, traduzione di Riccardo Fedriga) dove dalla sessualità all’antisemiti­smo, dalla letteratura alla contestazio­ne studentesca emerge anche il ritrat­to di una certa cultura di sinistra, d’ol­tralpe e non solo, degli anni Sessanta e Settanta, per la quale Gary rimase un corpo estraneo, ma difficile da espelle­re. La difficoltà nasceva dal fatto che il suo no ai totalitarismi Gary lo aveva pronunciato negli anni giusti: nessu­no poteva rinfacciargli doppiezze e/o abiure, nessuno poteva permettersi di arruolarlo in crociate ideologiche. L’estraneità era però l’altra faccia del­la medaglia, perché il suo socialismo, come dire, umanitario, popolare e ro­mantico, non era più moneta corren­te, non andava più di moda: era un po­pulismo alla Duvivier nel momento in cui trionfava il maoismo alla Godard... Il richiamo cinematografico non è in­congruo (Gary del resto fu anche regi­sta, pur se senza troppa fortuna), per­ché visivamente permette di capire co­me un tipo umano rimasto fedele all’Humphrey Bogart di Casablanca non potesse riciclarsi nel Michel Picco­li del Disprezzo ...
Anche questo aiuta a capire perché nel tempo della rivoluzione sessuale, del femminismo, eccetera, Gary, che pure per tutta la vita fu un cantore della femminilità e uno spregiatore della vi­rilità machista, fosse guardato con so­spetto. Detestava la sessualità applica­ta a tutto, arte compresa, e quando gli chiesero se scrivesse meglio prima o dopo aver avuto un rapporto sessuale, il suo «durante» è da antologia. Eppu­re, il suo «essere in due è per me la sola unità concepibile» anticipa di un tren­tennio quell’ «esperienza del Due» che il filosofo Alain Badiou mette ora come centro portante del suo Elogio del­l’amore , appena uscito sempre per Ne­ri Pozza (pagg. 110, euro 14, traduzio­ne di Dara Puggioni). Badiou è una cu­riosa figura di intellettuale-romanzie­re-autore teatrale transitato dal maoi­smo alla definizione dell’amore come «comunismo minimo» e alla «ridefini­zione» dell’idea comunista come «l’idea di un mondo che non è conse­gnato all’avidità della proprietà priva­ta», di un mondo «della libera associa­zione e dell’eguaglianza» all’interno del quale «per l’amore sarà più facile reinventarsi». È difficile dire se sostitui­re il proletariato e la lotta di classe con gli innamorati e l’incontro amoroso, Marx con Peynet, insomma, reinventi sia l’amore sia il comunismo...Così co­me, stando sempre a Badiou, che libe­ralismo e libertarismo convergano sul­l’idea che «l’amore è un rischio inuti­le», da cui deriva sia «una vita coniuga­le preconfezionata che si svolgerà nel­la dolcezza del consumo», sia «degli ac­comodamenti sessuali senza impe­gno e all’insegna del piacere».
Badiou teorizza «rischi e avventura contro la sicurezza e il benessere», ma quanto i primi rientrino in una logica comunista e i secondi in una logica li­beral-libertina francamente ci sfugge, da piccoli borghesi quali siamo. Più semplicemente, come scriveva Gary, «niente dona più senso alla vita, di un uomo che viva veramente una donna, di una donna che viva un uomo» e nel­l’irrazionalità di ogni discorso amoro­so c’è insieme l’ansia di rischiare e la speranza di riuscire.