Dario Di Vico, Corriere della Sera 10/07/2013, 10 luglio 2013
MA SE ARNAULT FOSSE NATO QUI
Archiviato il blitz Loro Piana con tutto il suo carico di sorpresa e di rimpianto, la domanda più interessante che faremmo bene a porci suona così: come si sarebbe comportato il sistema bancario italiano con un imprenditore edile, tipo Bernard Arnault, che avesse mostrato di aspirare a costruire un gruppo internazionale del lusso? La risposta non può che essere sconsolata. Non sarebbe andata come in Francia e il motivo purtroppo è semplice. Per condizionamenti, che per amor di patria definiamo ambientali, le banche italiane sono portate più a disegnare operazioni di sistema che a selezionare un numero sufficiente di imprenditori capaci e visionari. Quali siano state nel recente passato queste operazioni di sistema è fin troppo facile rammentarlo. Le banche italiane hanno sostenuto finanzieri-immobiliaristi incauti come Romain Zaleski oppure si sono dedicate al montaggio di cordate per l’Alitalia.
In tutte queste vicende a formare il «merito di credito» ha contribuito il nome del cliente o il dividendo politico dell’operazione stessa, piuttosto che l’individuazione di un imprenditore di talento, la verifica delle intuizioni di business, l’accompagnamento delle sue mosse in una logica di cooperazione e consulenza. Al sistema delle medie aziende italiane finora è mancata proprio la possibilità di giocare il jolly, di far pesare nella competizione un’interlocuzione costante con il mondo del credito finalizzata ad aggregare i marchi italiani e a proiettarli nell’economia globale.
Eppure se oggi l’economia italiana non è azzerata e l’industria cancellata lo si deve proprio alle medie aziende esportatrici, le multinazionali tascabili, che trascinandosi dietro l’indotto hanno saputo reagire alla discontinuità dei mercati generata dalla crisi, sono riuscite a sostituire come clienti le classi medie dei Paesi emergenti al consumatore Usa armato di credit card. Sono state capaci di farlo in tempi stretti e spesso muovendosi senza un aiuto tangibile delle ambasciate, degli enti di promozione e del sistema bancario. Questa crescita è il frutto di una silenziosa e continua opera di insediamento sui mercati, dell’individuazione delle strategie di distribuzione più consone, di una continua verifica/innovazione dei prodotti per conservare il posizionamento nobile del made in Italy. Si tratta però di una crescita condannata a concretizzarsi solo per linee interne e non a colpi di acquisizioni. Il motivo è evidente: ai nostri mancano le munizioni e non si fidano di andarle a rastrellare in Borsa.
Stando così le cose è logico che finiamo per subire il paradosso del cachemire, siamo capaci di invadere i mercati più lontani con la qualità dei nostri prodotti e la compattezza delle nostre filiere, nel frattempo però rischiamo costantemente di prendere gol in campo amico. Di vedere passare di mano le aziende più prestigiose. Solo per rammentare le più eclatanti, è successo con Bulgari, poi con Parmalat e 48 ore fa con Loro Piana. I gruppi italiani non avrebbero potuto comunque intervenire e quando lo si è tentato, disegnando in fretta e furia ipotetiche cordate alternative o addirittura approvando modifiche legislative ad hoc, ci siamo coperti di ridicolo. Quando saremo capaci di riunificare industria e finanza sarà sempre troppo tardi, ma non sarà un brutto giorno.
Dario Di Vico