Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 07 Domenica calendario

COSI’ MUORE IL PORTOGALLO TERREMOTATO DALL’AUSTERITY

Che farò quando tutto bru­cia non è certo una do­manda che si sono posti spesso i portoghesi negli ultimi 15 anni. Dopo decenni di sta­gna­zione sala­zarista, il regi­me modesto di un uomo modesto che aveva come massimo idea­le vivere tran­quillamente, la crescita pompata dai soldi dell’ Unione Euro­pea per oltre due decenni è stata miraco­losa e costan­te. Dunque non c’era biso­gn­o di farsi do­mande.
Era una cre­scita visibile e concreta: fat­ta di nuove grandi autostrade laddove c’erano piccole statali, musei all’avanguardia, univer­sità che spuntavano in ogni do­ve per dare un pezzo di carta ai giovani di un Paese con i tassi di scolarizzazione più bassi d’Eu­ropa. E poi centri commerciali. Così tanti da chiedersi chi mai avrebbe fatto compere: non tan­to perché non ci fossero i soldi, ma perché erano semplicemen­te troppi per un Paese così piccolo, la cui capitale supera di po­co i 500mila abitanti. Una cre­scita che ha portato il Portogal­lo a credere di essere finalmen­te uscito una volta per tutte dall’ arretratezza e dal mito autocon­solatorio della terra minuscola, periferica e dunque povera per forza di cose. Ma il giocattolo si è rotto presto. Non avevano fini­to di spolverare gli stadi vuoti costruiti per l’Europeo del 2004 che i primi scricchiolii si sono sentiti: -0,8 di Pil. Qualche an­no in altalena e poi dal 2008 ad­dio crescita e buonanotte alle cose di quaggiù. Oggi i porto­ghesi sono preoccupati e sfidu­ciati. Lo è Manuela Ferreria Lei­te, ex presidente del Psd, il parti­to socialdemocratico (conservatore nonostante il nome) del primo ministro, Pedro Passos Coelho. Per lei le dimissioni del ministro dell’economia Vitor Gaspar possono solo significa­re che la situazione del Paese è peggiore di quel che fa credere il governo. E se lei lo crede sol­tanto, i portoghesi lo constatano ogni giorno. Con una disoc­cupazione al 17,6%, che arriva al 42,1% tra i giovani sotto i 25 anni, è da un pezzo che a Lisbo­na hanno smesso di credere al­le cure della troika. E doveva aver smesso di credere che quel­la imposta da Bruxelles potesse essere la ricetta giusta anche il ministro Gaspar: stanco di do­ver apporre la sua firma a prov­vedimenti come la riduzione del 5% degli oltre 750mila di­pendenti pubblici, o l’aumento da 35 a 40 ore settimanali di la­voro per il settore pubblico. Ma la stanchezza dopo 5 anni di cri­si è di tutto il Paese. Basta mette­re il naso fuori dal centro della capitale per vedere un paesag­gio di ristoranti deserti e serran­de calate. Nel sito della masto­dontica Expo 1998, esempio ben riuscito di come gestire il post di un grande evento, i loca­li sono desolatamente coperti da due dita di polvere. A Porto la fondazione Serralves, uno dei fiori all’occhiello della rinascita culturale della città, fa ora­rio ridotto e arranca. A Lisbona ha chiuso per mancanza di fon­di perfino la Escola de calcetei­ros, la scuola comunale che for­mava i maestri selciatori, che per antica tradizione lavorava­no alla pavimentazione bianca e nera della città. Non ci sono più soldi per nuovi interventi e a mala pena quelli per i restauri. Così camminando per Lisbo­na i numeri della crisi diventa­no realtà concreta: porfidi che saltano, buche che si espando­no. Mentre i 700 euro di reddito medio, i 400 di pensione che percepiscono gli anziani di un Paese invecchiato si traducono in un paesaggio di vetrine abbandonate con la merce anco­ra esposta, quasi che non si trat­tasse di una crisi economica ma di un terremoto che ha co­stretto tutti a scappare. Ma se non è la terra che frana, di certo è l’orgoglio dei portoghesi che crolla. Dall’inizio della crisi a oggi l’unica vera ancora di sal­vezza è stata il ritorno all’emi­grazione, triplicata negli ultimi tre anni secondo l’Istituto na­zionale di statistica portoghe­se. Quella stessa emigrazione che negli anni Sessanta e Settan­ta aveva spogliato le campagne del Paese portando oltre 2 mi­lioni di persone (su circa 10) a la­sciare le rive dell’Atlantico per cercare fortuna in Francia, in Lussemburgo, in Svizzera. Solo che ora le mete sono cambiate. Addio Europa, matrigna ingrata: oggi - altra botta all’orgoglio lusitano - si emigra nelle ex colo­nie. Nell’Angola che scoppia di petrolio, nel Brasile che fino a ieri cresceva costante al 4%, perfi­no nel povero Mozambico asse­tato di professio­nisti o nella lonta­na Macao torna­ta ai cinesi. Se nel 2006 per Luanda erano partiti in 156, nel 2010 era­no diventati oltre 23mila. Aiutati dalla lingua e del­la necessità di fi­gur­e professiona­li elevate in un Paese tutto da co­struire, i portoghesi malati di austerity non hanno altra scel­ta che fare il percorso inverso dei loro genitori, ritornati a migliaia con la fine delle guerre coloniali. Quando tutto brucia e non si riesce a spegnere l’incen­dio, non rimane che andarsene in culo al mondo.