Emiliano Liuzzi, il Fatto Quotidiano 8/7/2013, 8 luglio 2013
DIETRO LE SBARRE DOVE CONFEZIONANO LE TOGHE AI GIUDICI
Il problema è vederlo o no, il cielo. È respirare quel briciolo di normalità che la vita da detenuta non può restituirti. Forse puoi solo respirarla una vita, perché quella dentro a San Vittore è un’altra cosa: è un respirare cadenzato dagli orari, apertura dei cancelli, chiusura, colazione, doccia, pranzo, ora d’aria, cena, televisione. Buio. Questa è quella catena sospesa che si chiama carcere, con dinamiche molto diverse da quello che è il mondo reale. La privazione della libertà, quella di uscire, certo. Ma anche quella di guardarsi allo specchio, perché nelle celle lo specchio è vietato. Puoi scoprirti addosso le rughe e i capelli imbiancati chissà dopo quanto tempo. Niente specchi, così come non esistono i bidet, perché non ci sono mai stati e costerebbero troppo, soprattutto in periodi di taglio. Non ci sono creme per le mani, rasoi, non c’è nessuno smalto. Tutto quello che è pericoloso viene eliminato per decreto. L’essenziale è il cibo, o rancio, e il sopravvivere.
“È SEMPRE difficile pensare al dopo”, spiega Diana, braccio femminile di San Vittore in attesa di essere trasferita altrove. “È troppo impegnativo il presente che la notte non ti trovi a sognare. Nessuno può immaginare da quanti anni non sogno più”. Eppure ha i nostri occhi, le stesse paure. “Ho sbagliato, pago. Ma resto un essere umano”. Ti guarda, poi torna al punto croce, alla macchina per cucire. Perché lei il suo riscatto lo ha trovato nella cooperativa sociale Alice, la sartoria di San Vittore e Bollate. Un esperimento nato nel 1991 e che ha resistito agli anni, ha restituito alla libertà duecento persone e ha riportato tra le sbarre quella parola troppo spesso lasciata cadere nel vuoto che si chiama dignità. Lavoro e dignità. Così, in vent’anni, passo dopo passo, Alice è diventato un marchio, Sartoria San Vittore, appunto, e un negozio di abbigliamento. È diventato un punto di riferimento anche per i magistrati: le toghe vengono confezionate, o riparate, dalle detenute, in virtù di un’idea dell’allora giudice Giovanna De Rosa, oggi membro del Csm. Sì, è così: i magistrati si vestono dalle detenute. Dietro compenso, ovvio. Fu una scelta che si trasformò in convenzione con l’Anm prima e poi con molti ordini degli avvocati sparsi per l’Italia. Se parli di toghe, è probabile che ci sia il marchio Alice. Come può capitare anche per l’abito da sposa, il completo di una danzatrice di flamenco, la giacca della sera .
Ci sono stilisti, coordinati da Rosita Onofri, e un’anima che si chiama Luisa Dalla Morte, che alla cooperativa ha dato tutto quello che aveva, e che dalla cooperativa ha ricevuto sostegni, abbracci, riconoscimenti. Il suo lavoro è convincere detenute e detenuti che esiste una seconda possibilità. Anche dopo 23 anni di carcere senza vedere il cielo e capire dove siano le rughe perché non c’è lo specchio. Il fatturato è venuto dopo: si chiama cooperativa sociale, appunto. Non è un’azienda a scopo di profitto. C’è la dignità prima del bilancio. La dignità e una bufera da attraversare ogni anno che passa, perché poi bisogna mantenerla viva, e in questi vent’anni tutto è cambiato. Sono cambiati i detenuti. “I primissimi anni”, racconta Luisa, “avevamo a che fare con donne e uomini che uscivano dalla stagione del terrorismo. Italiani, quasi sempre. Determinati e consapevoli di quelli che erano i loro diritti. Oggi in carcere ci sono gli stranieri e gli spacciatori di droga. Per portarli a lavorare avevamo la necessità di ripensare tutto”.
MAGISTRATI, dicevamo. Ma non solo. Entrare in contatto con la coop Alice e Luisa è stata una folgorazione anche per Filippo Bartolini, architetto per la trasmissione televisiva Servizio Pubblico e non solo. Creativo, sarebbe la definizione più corretta. Non si può definire altrimenti uno che ha portato pezzi di legno e bottiglie di plastica e ha fatto costruire ai detenuti di tutto , dalle borse ai mobili. Tutto materiale che si sarebbe disperso. “Io a lavorare lì dentro ho ritrovato me stesso”, dice Bartolini. “La mia dimensione”.
Eppure è difficile. Perché è come entrare in una serie di tempeste. Umane, ma non solo. Quella che si presenta dietro l’angolo si chiama Cancellieri, nel senso di Anna Maria e Decreto svuota carceri. E questo potrebbe anche significare, se non scritto con la testa ai disgraziati invece che alla casta, difficoltà di reinserimento. Chi delinque probabilmente continuerà a farlo, accumulerà pene che gli riapriranno le porte del carcere.
Poi c’è da tenersi in vita in un mondo con regole e dinamiche diverse: dentro sono tutti innocenti, innanzitutto. Domande non se ne fanno, risposte nemmeno.
L’EVASIONE ti ronza per la testa, sempre, dalla mattina alla sera. Anche se manca un giorno. Soprattutto non si pestano i piedi a chi comanda e gode di carisma. E quello che si vuole ottenere non è un diritto, ma un biglietto da porre al capo delle guardie che decide o meno.
Oggi le carceri italiane hanno – secondo il governo – la necessità di essere svuotate. Sicuramente dietro a quei muri servirebbe l’apertura verso l’esterno. E soprattutto una vita vivibile. A Bollate qualcosa di simile è accaduto. È una casa di reclusione quasi sperimentale, la vita è meno agra rispetto agli altri istituti. Ma è l’eccezione. Non la regola. San Vittore è un inferno. Lo stesso è Torino, e via giù fino a Poggioreale e l’Ucciardone. Non sarà un decreto a cambiare le cose. Forse è più probabile che il reinserimento passi da persone come Luisa o lo stesso Filippo, che ne hanno fatto una loro ragione. Umana e spontanea. La ragione di Stato non oltrepassa questi muri.