Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 08 Lunedì calendario

QUANDO L’ITALIA FINI’ NEL POZZO CON ALFREDINO

La radio canta Per Elisa, vincitrice a Sanremo. Le famiglie tirano tardino il venerdì sera aspettando Enzo Tortora e “Portobello”. “Big Ben ha detto stop”. La politica sprofonda nel fango delle liste della P2 di Gelli. Arnaldo Forlani lascia il governo e per la prima volta a Palazzo Chigi sale un laico, Giovanni Spadolini. 1981, un anno straordinario. Il 10 giugno a San Benedetto del Tronto le Brigate Rosse rapiscono l’operaio Patrizio Peci, fratello di Roberto, nome di battaglia Mauro, pentito e quindi infame da punire. Nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno a 219 chilometri di distanza, Alfredino Rampi sta passeggiando con suo padre nelle campagne di Vermicino, un passo da Roma. Un padre e un bambino capriccioso per mano, che tira e frigna, vuole tornare a casa dei nonni da solo. Poche centinaia di metri, Alfredino insiste, si sente grande, è una sfida e vuole vincerla. Il papà cede, lo accontenta. Il bimbo va. Cammina felice verso l’ignoto. Perché dalle 21,30 di sera il piccolo sparisce. Lo hanno rapito, no, si è perso.
CHIAMARE IL 113. Si batte la campagna. Solo a mezzanotte un poliziotto si avvicina ad un buco tra l’erba coperto di lamiere. Si abbassa, tende l’orecchio, sente un lamento. È Alfredino. È scivolato giù in un pozzo artesiano incustodito. È l’inizio di una tragedia che sconvolge per sempre esistenze, segna vite, cambia l’anima del Paese e la sua percezione del dolore. In fondo a quel pozzo buio c’è un bambino, sopra il cielo illumina un’Italia sul-l’orlo dell’abisso. Paese arruffone che non sa proteggersi, che non impara mai da alluvioni, terremoti, frane catastrofiche. C’è un bimbo che rantola nell’oscurità, sopra di lui si affollano i vigili del fuoco, li comanda l’ingegner Elveno Pastorelli. Un decisionista. Alfredino è giù a 30 metri, cadendo si è incastrato tra roccia e fango. Non ci sono mezzi adatti e qualcuno pensa di salvare quella povera anima calando giù una tavoletta legata a una corda. Una rudimentale altalena alla quale il bambino dovrebbe aggrapparsi. Fallisce. Passano le ore, un microfono calato giù con una sonda rimanda la voce di Alfredino. Metallica, cavernosa, terribile. “Mamma, mamma”. Il vigile del fuoco Nando Broglio col megafono gli parla, gli racconta favole, fa promesse. Dall’abisso il bambino si fa uomo e grida “basta, basta”. L’Italia arruffona si contorce sulle sue macerie. Il giorno dopo arrivano mastodontiche trivelle, l’idea è quella di scavare un pozzo di servizio parallelo per raggiungere il bambino e salvarlo. È cosa fatta, dicono. Manca poco. La tv scopre il dramma, il finale a lieto fine è a portata di mano. Ed è subito diretta. La prima. Tre giorni ininterrotti, ascolti mai visti prima. La telecamera sul volto della madre Franca, le trivelle che scavano, Pastorelli che rassicura, e le panoramiche sulla folla, diecimila persone attorno al pozzo di Vermicino. Un suk della disperazione. Venditori ambulanti, porchettari, bibitari, volontari e santoni. A casa milioni di italiani hanno gli occhi fissi sulla scena. Scrutano morbosi i comportamenti della madre, si dividono, giudicano i soccorritori. Sono ascolti da record: venerdì 12 giugno prima edizione Tg 12,5 milioni di spettatori. Alfredino è nel pozzo da 48 ore, il cuore di piccolo cardiopatico che rallenta, il fiato grosso, le gambe rannicchiate sul petto, le braccia incastrate dietro. Alle 19,15 sono 21 milioni e 700mila. Trenta milioni, metà Italia, alle undici di sera. Il pozzo scavato dalle trivelle è inutile, il bambino scivola ancora più giù, a 60 metri. C’è Sandro Pertini, il presidente partigiano, ma la buona notizia non arriva. In un angolo quattro ragazzi con le funi e i capelli lunghi. Sono gli speleologi e li tengono lontani. Li coordina Tullio Bernabei. Anni dopo non ha dimenticato: “Furono fatti errori tecnici enormi, frutto di scarso coordinamento e di una scelta precisa. Non potevano essere quattro ragazzi capelloni a salvare Alfredino, doveva essere lo Stato a tirarlo fuori”. Ha ragione Umberto Eco. Vermicino “è diventato un fatto teatrale, dove il massimo di verità atroce ha cominciato a fare intravedere la possibilità del massimo di falsificazione”. Maurizio Monteleone oggi è un signore di 58 anni, allora un ragazzo di 26 con la passione della speleologia. “Gli occhi della mamma di Alfredino non li dimenticherò mai. Ci supplicavano di salvare il suo bambino”. Monteleone ha una matita d’oro e ha raccontato la tragedia nella graphic novel Vermicino l’incubo del pozzo. Tentano in tanti di calarsi nell’abisso. Ma uno solo riesce a toccare Alfredino. È Angelo Licheri, un sardo basso e segaligno. Fa il fattorino e pesa 45 chili. “Vado a prendere le sigarette. E andai lì. Arrivai sul posto e dissi ce la posso fare. Maurizio Monteleone mi giudicò adatto. Mi imbragarono, mi legarono per i piedi e mi calarono giù. Non avevo mai visto una grotta, avevo paura dei serpenti, fumavo e avevo un piccolo enfisema polmonare, ma dovevo farcela”.
ANGELO SCENDE a testa in giù per 35 metri in un cunicolo largo 30 centimetri. Il pozzo si curva a gomito, ad un lato la roccia. “Urlavo mollate, mollate, sapevo che dovevo farmi spazio con il corpo, la roccia mi tagliava le gambe, le braccia, le anche sanguinavano...”. Angelo riesce ad avvicinarsi al bambino, gli pulisce la bocca dal fango, gli libera gli occhi. Cerca di stringerlo con una corda a mo’ di giubbottino come gli speleologi gli hanno insegnato. “Lo prendo per un polso, sento un rumore secco, gli ho fatto male”. Angelo sta in quella posizione per 45 minuti, un tempo interminabile, insopportabile finanche per un uomo allenato. Il bimbo gli scivola, non riesce a stringere bene la corda. Angelo cede. Manda un bacio ad Alfredino e piange. Trent’anni dopo il piccolo sardo dal cuore enorme vive su una sedia a rotelle sconfitto dal diabete. Gli occhi hanno ceduto, ma hanno ancora lacrime per Alfredino. L’Italia ufficiale lo ha cancellato dai suoi ricordi. Perché il sardo rappresenta eroismi ormai scomparsi. Vive con una pensione modestissima e la solidarietà di chi non lo ha dimenticato. Franca Rampi non parla con i giornali e le tv. Ha dedicato la sua vita al “Centro Alfredo Rampi”, una onlus che da trent’anni insegna e organizza la prevenzione. “La conobbi qualche mese dopo la tragedia – ci racconta lo psicologo Daniele Biondo – e mi colpì per la sua forza. Aveva perso un figlio in quel modo atroce e i giornali l’avevano massacrata. La magistratura sospettata e indagata. Ha dovuto aspettare anni per avere giustizia. Eppure ha pensato agli altri”. Franca Rampi non è più la presidente del centro, ha deciso di fare la nonna e ha lasciato tutto all’amico psicologo Biondo. Una frase dello scrittore svedese Stig Dagerman è la loro guida: “Nel mondo dei bambini tutti i quadri sono appesi troppo in alto”.