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 2013  luglio 09 Martedì calendario

DI CHI È LA LIBIA?


L’attacco al consolato di Bengasi, l’11 settembre scorso, che è costato la vita (fra gli altri) all’ambasciatore americano in Libia Chris Stevens, è stato considerato dai media uno spartiacque fra due fasi della recente evoluzione politica del paese. Prima di quell’evento, fondandosi su valutazioni errate e superficiali, i media occidentali avevano tralasciato alcuni aspetti fondamentali dell’estremamente complessa realtà libica. Si erano così affrettati a certificare il trionfo del processo di transizione, per poi osservare attoniti all’indomani dell’11 settembre un panorama caotico, in cui le milizie antigovernative sembrano controllare vaste aree del territorio, mentre una classe politica impreparata e inesperta non riesce a eleggere un governo stabile né a costituire un apparato militare capace di garantire l’ordine interno.
Con un’analisi più attenta e più fedele alle numerose sfaccettature del panorama politico e sociale della Libia, sarebbe stato possibile considerare l’attuale vacuum istituzionale e la mancanza di sicurezza come evoluzioni (o involuzioni) parallele e prevedibili dell’attuale contesto socio-politico libico.

Il cammino ’trionfale’ verso la democrazia...
Pochi mesi dopo la fine della guerra civile e dell’intervento Nato, la Libia fu presentata agli occhi del mondo come un modello di trionfo dei valori democratici. Un esempio sorprendentemente concreto di come un paese appena liberato da una feroce dittatura potesse riprendere in mano il proprio destino e costruire, tramite la rinascita dell’associazionismo politico da cui sarebbe scaturito un governo democraticamente eletto, un cammino virtuoso verso la pace e la libertà. Prima dell’11 settembre, le varie tappe previste per una pacifica transizione democratica erano state rispettate: il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) era riuscito senza troppe difficoltà a traghettare il paese fino alle elezioni di luglio (le prime pienamente democratiche dal 1952). Elezioni che hanno stabilito la composizione del nuovo organo legislativo, il Congresso nazionale generale (Cng), formato da 200 membri e destinato a sostituire il Cnt per i successivi 18 mesi.
Lo svolgimento delle elezioni, avvenute in un clima di relativa tranquillità e in modo regolare (come certificato dai membri dell’election assessment team inviati dall’Unione Europea), si è concluso dunque secondo le più ottimistiche previsioni. I risultati ufficializzati qualche giorno dopo hanno rappresentato quello che l’Occidente reputava lo scenario migliore possibile: la vittoria dell’Alleanza delle forze nazionali (Afn), una coalizione dei partiti cosiddetti secolaristi e guidata dall’ex primo ministro del Cnt Mahmud Gibril. L’Afn si è assicurata una larga maggioranza, conquistando 39 degli 80 seggi assegnati ai partiti, mentre i religiosi moderati del Partito della giustizia e della ricostruzione, sponsorizzati dalla Fratellanza musulmana, hanno deluso le aspettative conquistando appena 17 seggi. Niente di meglio dunque per i governi occidentali, che temevano un’ulteriore avanzata dell’influenza islamica nella regione dopo gli ottimi risultati ottenuti dalla Fratellanza nelle tornate elettorali in Egitto e in Tunisia. Le elezioni hanno invece riservato qualche sorpresa per quanto riguarda i rimanenti 120 seggi del Cng da assegnare ai candidati indipendenti, tra i quali si annoverano diverse personalità vicine alla Fratellanza.
Nella prima sessione di lavori del neonato Cng è stato eletto il nuovo presidente: Muhammad Magaryaf, considerato dall’opinione pubblica occidentale un moderato, ex esule e storico oppositore del regime di Gheddafi in quanto fondatore e leader del Fronte di salvezza nazionale libico (Fsnl), oggi ridenominato Partito del fronte nazionale.

... e la complessità libica
Il quadro lineare e confortante fin qui descritto rappresenta però un aspetto della realtà analizzata con criteri e categorie prettamente occidentali.
Il concetto di laicità in Libia sembra non avere molto significato: a un’analisi più attenta, ci si rende conto ad esempio che la citata coalizione «secolarista» di Gibril è composta da personalità che difficilmente seguiranno criteri diversi dal tradizionale conservatorismo musulmano. È dunque fuorviante considerare i vari movimenti come nettamente distinti in punto di ideologia. Lo stesso Gibril ha più volte sottolineato di ispirarsi ai valori fondanti dell’islam e di volere affermare la shari’a come fonte del diritto, smentendo dunque le caratteristiche che i media occidentali gli attribuivano. L’unica particolarità attribuibile a questa coalizione è essere strettamente identificabile come movimento di ispirazione religiosa.
Ma il partito di Gibril è solo un esempio che dimostra l’inadeguatezza dei parametri utilizzati per descrivere il panorama politico libico. Non si riesce nemmeno a distinguere una reale eterogeneità ideologica: un partito liberale, un partito repubblicano, uno laico e così via. Pertanto, anche le piattaforme e le proposte politiche dei vari partiti risultano molto meno diversificate di quanto percepito dalle opinioni pubbliche occidentali.
Le cause, oltre all’appartenenza religiosa comune, sono da ricercare in una cultura politica ancora troppo frammentata e personalistica: l’istituzione del partito politico sembra prematura in un paese come la Libia, in cui si è ancora legati allo za’im, alla figura del capo locale, del notabile. L’ideologia come valore unificante di un gruppo politico ha ancora scarsa presa, tranne nel caso dei Fratelli musulmani.
La confusione e l’incertezza che in questi ultimi mesi caratterizzano il cammino istituzionale del paese confermano il quadro appena descritto: il processo di formazione del nuovo governo, che dovrà guidare il paese verso nuove elezioni e disegnare una nuova costituzione, è in fase di stallo. Il giorno successivo l’attentato di Bengasi, il Cng ha eletto Mustafà Abu Sagur (preferendolo al più quotato Gibril) come nuovo primo ministro incaricato di nominare entro un mese il nuovo gabinetto di governo. La lista proposta da Abu Sagur nei primi giorni di ottobre ha scatenato l’indignazione di molti sia nel Cng sia all’esterno dei palazzi del potere: la sera del 4 ottobre oltre duecento manifestanti provenienti da Zawia, città a ovest di Tripoli, hanno assaltato il palazzo del Congresso pretendendo le dimissioni del primo ministro, accusato di non aver nominato alcun membro della loro città nel suo esecutivo, così rendendosi colpevole di discriminazione territoriale. Il Cng ha dunque rigettato le nomine di governo e ha sfiduciato Abu Sagur il 7 ottobre scorso. Analoghe difficoltà hanno ostacolato l’insediamento del suo successore, l’ex diplomatico ’Ali Zaydan. La strada verso la normalizzazione del paese sembra ancora irta di difficoltà.

La ’questione sicurezza’ in Libia: le forze antidemocratiche...
Il caos istituzionale non è tuttavia l’unica realtà a cui bisogna guardare. Esiste un piano parallelo, quello della sicurezza, che influenza in modo altrettanto critico lo scenario politico e che nonostante le rassicuranti dichiarazioni dei leader libici era ed è ancora fuori sesto. Questa realtà pericolosa si presenta come un magma indistinto di forze militari facenti capo a una miriade di movimenti di natura personalistica, regionale e religiosa. Gli interessi contrapposti di tali gruppi hanno causato la nascita di un conflitto generalizzato e disordinato in cui l’unica frattura sembra essere quella tra chi agisce per impedire una transizione lineare verso la democrazia e chi agisce per favorirla.
Il fronte dei primi è composto da gruppi eversivi di varia natura, la cui unica caratteristica comune è quella di agire con la violenza, necessaria per dare visibilità alla propria causa. Vediamo di chi si tratta.
A) La fazione più temibile è quella dei salafiti: un movimento ispirato alla tradizione islamica più radicale e violenta, quella wahhabita. A seguito della guerra civile, questo gruppo ha allargato la sua influenza. Presumibilmente finanziati da alcuni sauditi vicini ai Gheddafi [1], i salafiti agiscono su tutto il territorio libico. Essi si sono resi responsabili di molte violenze, come la distruzione delle moschee sufi, nel settembre scorso. Tale episodio ha dimostrato l’impotenza – e in questo caso l’indulgenza – delle forze di sicurezza governative, generando inquietanti sospetti riguardo possibili presenze salafite tra i loro ranghi, sospetti poi dimostratisi fondati a seguito delle ammissioni fatte in proposito dal ministero dell’Interno. Tramite queste azioni i salafiti mirano a dominare lo spettro politico islamico. Essi intendono conquistare con la violenza lo spazio finora appannaggio dei più moderati Fratelli musulmani.
B) Una seconda minaccia è rappresentata dall’organizzazione qaidista ormai universalmente conosciuta come Aqim (al-Qa’ida nel Maghreb islamico). Nonostante la parvenza di omogeneità, questa sigla include una nebulosa di gruppi jihadisti che sviluppano attività terroristiche di vario genere, per poi utilizzare l’etichetta di al-Qa’ida quando l’occasione lo richiede. Al di là delle singole realtà, è importante considerare l’obiettivo comune dei vari gruppi uniti nella nebulosa Aqim: profittare dello scarso controllo territoriale centrale per destabilizzare le istituzioni democratiche, creando un santuario per le forze jihadiste operanti nell’area. La concretezza di tale strategia è dimostrata dal fatto che questa organizzazione ha in poco tempo creato una rete molto fitta di rapporti in tutto il Nordafrica. Si pensi ai recenti drammatici eventi occorsi in Mali: il paese è precipitato nel caos a marzo, quando un colpo di Stato militare ha rovesciato il presidente, consentendo ai tuareg di conquistare il Nord e ai gruppi islamici vicini ad al-Qa’ida di imporvi la shari’a. Tutto questo, secondo numerose fonti [2], è stato possibile grazie all’azione di Aqim, che dalla Libia ha introdotto nel territorio tonnellate di armi e munizioni provenienti dagli arsenali di Gheddafi, saccheggiati pochi giorni dopo la caduta del regime.
C) Oltre a queste sigle più o meno organizzate, esistono gruppi indipendenti tra loro e più simili a milizie armate che a vere e proprie organizzazioni strutturate, i cui pochi caratteri comuni consistono nell’impronta islamista radicale e nell’interesse ad avere un’influenza rilevante nel futuro del paese.
Uno dei gruppi più visibili è quello di Ansar al-Shari’a, caratterizzato da un’ideologia islamista radicale ben netta e molto vicina alle posizioni salafite. Formatesi come forza anti-gheddafiana durante il periodo della guerra civile, rientra all’interno di quei movimenti estremisti islamici che avversavano il «pensiero unico» dell’islam imposto da Gheddafi. Non era un caso quindi che questo gruppo si trovasse dalla parte dei ribelli nei primi mesi della guerra civile. Subito dopo però, a causa del suo carattere dichiaratamente antidemocratico, la «brigata» (come la definisce il fondatore Muhammad al-Zahhawi) è passata sulla sponda opposta al governo transitorio. Ansar al-Shari’a è il sospettato numero uno per gli attacchi al consolato di Bengasi. A questo gruppo si attribuisce inoltre la responsabilità dell’attacco contro un convoglio in cui si trovava l’ambasciatore britannico in Libia, Dominic Asquith, verificatosi a Bengasi nel giugno scorso.
Un altro gruppo assimilabile a questa terza categoria è la cosiddetta Brigata del prigioniero ’Abd al-Rahman. Nata per vendicare l’ideologo egiziano noto come «lo sceicco cieco», attualmente detenuto negli Usa, la Brigata è ritenuto responsabile di numerosi attentati tra cui quello alla sede della Croce Rossa, avvenuto nell’agosto scorso a Misurata. Inoltre si sospetta che anch’essa abbia avuto un ruolo nell’attacco dell’11 settembre a Bengasi.
D) Un ultimo ma altrettanto importante movimento è quello dei nostalgici del regime di Gheddafi. Questo raccoglie al suo interno membri della tribù Qaddafi e delle tribù alleate, le forze cosiddette lealiste (ex membri degli apparati militari che non hanno mai abbracciato la causa della rivolta) ed esuli legati al deposto regime, rifugiatisi soprattutto in Egitto. Gli ex gheddafiani, nascondendosi dietro sigle di gruppi inesistenti, stanno contribuendo a destabilizzare il paese seguendo due linee d’azione ben precise. La prima consiste nel sostenere il finanziamento dei gruppi salafiti per ottenere la liberazione e l’ascesa al potere di Sa’di Gheddafi, attualmente in Niger e molto attivo nel riorganizzare la guerriglia antigovernativa. La seconda strategia, più diretta e violenta, si manifesta attraverso omicidi di alti ufficiali e attentati sferrati contro edifici governativi e dei servizi di sicurezza. Agli ex gheddafiani sono attribuiti infatti numerosi attentati, tra i quali l’esplosione di un’autobomba nei pressi del ministero dell’Interno e dell’Accademia militare femminile sulla ’Umar al-Muhtar Avenue di Tripoli (che ha ucciso due persone ferendone altre quattro), e l’imboscata avvenuta il 10 agosto a Bengasi contro il generale Muhammad Hadiyya al-Fituri, uno dei primi alti ufficiali a sostenere l’opposizione durante la guerra civile [3]. Recentemente, quattro ufficiali di polizia sono stati uccisi a seguito di un raid nella città di Susa, a 260 chilometri da Tripoli. Si calcola che negli ultimi mesi l’azione dei lealisti abbia mietuto oltre venti vittime.
Nonostante questi gruppi abbiano origine e obiettivi diversi, sono comunque portati a collaborare fintantoché gli obiettivi e gli interessi degli uni coincidono con quelli degli altri.

... e l’improbabile esercito libico
Il quadro caotico e incontrollato appena descritto si presenta in modo altrettanto sconfortante all’interno delle cosiddette «forze di sicurezza». Descritte dai media e dagli stessi organi di governo libici come una forza unitaria e coesa, queste sono in realtà delle milizie armate non molto dissimili da quelle esaminate in precedenza. Esse hanno combattuto contro Gheddafi durante la guerra civile e sperano di ottenere un ruolo nella nuova Libia, supportando però la politica del nuovo establishment. Complice la totale mancanza di controllo centralizzato, le forze in campo non seguono una strategia comune ma sono portate ad agire secondo il proprio arbitrio e i propri interessi.
La mancanza di controllo centrale appare dunque il problema principale di questa fase della transizione. Siamo di fronte all’assenza di uno dei pilastri fondamentali necessari alla creazione di uno Stato: il monopolio dell’uso della forza, che dovrebbe manifestarsi per mezzo di forze di polizia coese e ben strutturate all’interno del territorio nazionale.
Gli episodi che riguardano le forze di sicurezza libiche fanno emergere un quadro altalenante rispetto alla loro fedeltà verso lo Stato. Durante gli attacchi di settembre al consolato di Bengasi, ad esempio, non si è verificato alcun intervento volto a contrastare l’ingresso dei manifestanti all’interno del perimetro dell’edificio, facendo emergere gravi problemi per la sicurezza di tutte le rappresentanze diplomatiche presenti nel paese. Inoltre, negli episodi concernenti la distruzione delle moschee sufi, il gravissimo rifiuto delle forze di sicurezza all’ordine di intervenire ha suscitato lo spettro delle infiltrazioni salafite.

Le sfide all’orizzonte
È ovvio che in un paese che si appresta a divenire Stato a tutti gli effetti non sia accettabile una situazione del genere. Vista l’incertezza diffusa, è assolutamente necessario che venga formato al più presto un governo stabile, e che questo provveda con decisione a una profonda riforma del settore della sicurezza. Sarebbe opportuna la formazione di una gendarmerie e quindi di un apparato paramilitare separato dall’esercito che si occupi della gestione della sicurezza nel paese. Le Forze armate, nel frattempo, dovranno essere rinnovate completamente per evitare ulteriori infiltrazioni. Inoltre sarebbe auspicabile che le varie milizie filogovernative, troppo decentrate e instabili, fossero smantellate e riassorbite all’interno del tessuto produttivo, facendo leva su un programma per la creazione di posti di lavoro. Tali forze sarebbero da utilizzare ad esempio nella costruzione di infrastrutture.
È inoltre essenziale che Usa e Unione Europea accompagnino e incoraggino il processo di democratizzazione in atto, supportando programmi paralleli di addestramento e formazione per l’acquisizione di know-how sia in campo militare che economico, così evitando gli errori commessi in Afghanistan negli anni Ottanta o nell’Iraq contemporaneo, che rischierebbero di rendere la Libia una vera e propria polveriera.

Note:
[1] Come recentemente dichiarato dal Network of Free Ulema, l’associazione degli ’ulama’ libici.
[2] Cfr. K. MEZRAN, F. LAMEN, Security Challenges to Libya’s Quest for Democracy, Issue Brief, Atlantic Council, settembre 2012.