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 2013  luglio 07 Domenica calendario

«LA NATO NON HA CPITO L’AFGHANISTAN. RIPETE GLI ERRORI DEGLI INGLESI NELL’800

Quando, in febbraio, è stato pubblicato l’ultimo libro di William Dalrymple nell’edizione inglese, Hamid Karzai ha invitato immediatamente l’autore al suo palazzo di Kabul. «Il presidente mi ha parlato per più di un’ora e mezzo. Teneva in mano una copia del mio libro, l’aveva letta con evidente attenzione, era sottolineata e annotata su quasi ogni pagina» racconta adesso Dalrymple alla «Lettura». Soprattutto il presidente afghano voleva approfondire i motivi del fallimento della prima invasione britannica del suo Paese nel 1839, con l’epilogo del massacro dell’esercito coloniale tre anni dopo. «Era rimasto colpito dalla mia rivalutazione del re di allora, Shah Shuja, protetto dagli inglesi, eppure forte di un proprio carismatico consenso. Oltretutto appartengono entrambi allo stesso clan tribale dei Popalzai».
Il motivo è ovvio. Karzai cerca in ogni modo di smentire l’immagine diffusa dai talebani e rilanciata in modo martellante da larga parte della stampa estera, che lo dipinge come un presidente-marionetta nelle mani di Washington e della Nato. La versione che va per la maggiore lo dipinge come un leader debole, privo di legittimità, incapace di reggere il Paese con le sue sole forze, proprio come fu re Shah Shuja. Talmente insicuro del proprio avvenire che adesso punta i piedi e contesta con caparbia determinazione il rinnovato desiderio americano di negoziare con i talebani per paura di restare ancora più isolato. «In verità il monarca avo di Karzai fu molto più popolare di quanto si creda. Coraggioso, coerente e un uomo di princìpi: rimase fedele agli inglesi anche quando gli sarebbe convenuto abbandonarli. Dopo la loro ritirata si rese conto che avrebbe potuto continuare a governare da solo Kabul. Venne poi assassinato in una faida familiare per futili motivi, che non avevano nulla a che vedere con il suo nemico numero uno, quello stesso Dost Mohammed Khan che aveva battuto i colonialisti invasori e oggi sono in tanti a paragonare con il leader talebano Mullah Omar» spiega Dalrymple.

Sta qui la clamorosa attualità di Return of a King. The Battle for Afghanistan: pagina dopo pagina segui il racconto avvincente delle battaglie tra le montagne dell’Hindu Kush 170 anni fa e fai il parallelo con gli avvenimenti seguiti all’11 settembre 2001. Vi si narra in modo rigoroso, utilizzando fonti originali anche indiane, afghane e persiane, uno dei momenti più drammatici di quello che Rudyard Kipling definì il «grande gioco», la sfida senza esclusione di colpi tra Londra e Mosca per il controllo delle vie commerciali per l’Asia nella prima metà dell’Ottocento. Ma, in realtà, il lettore è spinto di continuo a riflettere su modalità e conseguenze della recente invasione dell’Afghanistan a caccia di Al Qaeda, di Bin Laden e del mullah Omar. «La storia non ripete se stessa. Eppure, l’attuale disastroso coinvolgimento occidentale nel Paese ricorda molto da vicino la catastrofe coloniale di allora» ammette l’autore.
Le similitudini sono incalzanti: gli errori nella sopravvalutazione del nemico (gli inglesi invasero dopo che i loro servizi d’informazione avevano esagerato la minaccia zarista nella regione); l’incapacità di comprendere e fronteggiare la realtà tribale locale; il disprezzo per i valori sociali afghani; la convinzione che la campagna sarebbe stata una «scampagnata», presto smentita però dalla durezza della resistenza opposta dalle popolazioni locali. Da qui la facile vittoria iniziale e l’inettitudine dimostrata nel consolidarla. Nel 1840, dopo aver raggiunto Kabul, gli alti comandi inglesi sottovalutarono la capacità di ripresa delle tribù pashtun e tagike e sguarnirono i presidi per andare a combattere la prima guerra dell’Oppio in Cina. Esattamente come nel 2003 l’amministrazione Bush si lanciò nell’avventura irachena, abbandonando l’Afghanistan al suo destino e lasciando spazio ad Al Qaeda e ai talebani per riorganizzarsi.
Impressionanti sono anche le similitudini dei confini geografici della guerra di allora con quella di oggi. In gioco sono le stesse tribù, gli stessi nomi delle grandi famiglie dei signori della guerra, le stesse strade, gli stessi luoghi. Gli inglesi perdono 4.500 soldati (di cui 700 cittadini britannici) e oltre 14 mila civili al seguito della sfortunata guarnigione di Kabul nella decina di giorni che accompagna la scelta folle di abbandonare la città in pieno inverno, accerchiati, braccati dalla guerriglia, per cercare di raggiungere il passo Khyber e scendere nelle pianure indiane (oggi del Pakistan) oltre Peshawar. Buona parte del massacro avviene nelle gole aspre e rocciose presso il villaggio di Sarobi, prima di Jalalabad.
Proprio qui nel novembre 2001 venne assassinata la giornalista del «Corriere della Sera» Maria Grazia Cutuli assieme a tre colleghi stranieri. Sono vallate abitate da popolazioni ancora oggi ostili agli stranieri, dove si mischiano fondamentalismo islamico e banditismo. Stupiscono indecisioni e sottovalutazioni della gravità della situazione militare da parte degli alti comandi britannici del tempo. All’inizio delle rivolte dispongono di uomini e mezzi in abbondanza per battere la resistenza. Hanno fucili e cannoni di qualità superiore ai loro nemici. Pure, non si muovono. Lasciano che i distaccamenti isolati nelle zone montagnose vengano massacrati uno dopo l’altro.
Un prozio di Dalrymple, il capitano Colin Mackenzie, fu uno dei pochi ufficiali usciti vivi dalla catastrofe con qualche merito. Eppure l’autore non ha alcuna remora nel denunciare l’immensa crudeltà della repressione: «I comandi inglesi furono responsabili di errori clamorosi e gli attacchi dei loro soldati contro i civili per vendicare i propri morti furono peggio delle torture inflitte dai guerriglieri afghani ai prigionieri» sostiene deciso. Poche settimane fa al comando centrale Nato-Isaf di Kabul l’ufficiale australiano Adam Findlay, autore di una tesi di dottorato a Oxford proprio sulla prima guerra anglo-afghana e vicecomandante per la pianificazione operativa, commentando questo libro sosteneva che «in realtà non fu una sconfitta, alla fine gli inglesi dettero una bella lezione ai responsabili del massacro della loro guarnigione». Ma la sentenza di Dalrymple è senza appello: «Vero che poi le guarnigioni di Kandahar e Jalalabad si mossero su Kabul per punire i nemici. Ma furono azioni di rappresaglia nuda e cruda. Dopo pochi mesi gli inglesi abbandonarono il Paese intero».

L’opera di Dalrymple non può essere ignorata da chi si occupa di Afghanistan. Scrive lui aggressivo nelle pagine finali: «Più avanzavo nelle mie ricerche per la preparazione del libro più il primo disastroso coinvolgimento occidentale nel teatro afghano mi sembrava contenere eco distanti delle avventure neocoloniali dei nostri giorni». Il suo parallelo tra le due «avventure» si allunga anche alle dinamiche del ritiro ora all’ordine del giorno. La Nato prevede di uscire dal Paese entro la fine del 2014. Spiega ancora: «Oggi, come del resto anche allora, non si tratta di fughe senza altra possibilità di scelta. Nel 1842 gli inglesi avrebbero potuto restare. Ma l’impresa costava troppo, il gioco non valeva più la candela».
È stato calcolato che per quell’invasione gli inglesi abbiano pagato una cifra pari a circa 80 miliardi di dollari odierni. Molto meno degli americani, che oggi denunciano spese superiori ai 100 miliardi di dollari annuali (senza contare le cifre versate dagli altri 51 Paesi del contingente Nato-Isaf). Conclude scettico: «Adesso ce ne andiamo perché non ne vale più la pena. Karzai potrebbe cercare di restare, come fece Shah Sujah. Magari con più fortuna. Ma il futuro dell’Afghanistan è imprevedibile. Certo sarà tutto molto, molto difficile».