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 2013  luglio 07 Domenica calendario

UNA BISTECCA E UN CIOCCOLATO. L’ULTIMA CENA DI KIMBERLY

Kimberly McCarthy è arrivata in mattinata alla Walls Unit del penitenziario di Huntsville. Ha atteso in una cella il momento dell’esecuzione. Ha avuto anche il tempo di consumare la cena, nel tardo pomeriggio. Non una cena speciale, come si concedeva una volta ai condannati; ma la stessa servita agli altri detenuti: il Texas ha abolito da tempo la consuetudine. Kimberly ha mangiato una bistecca al pepe accompagnata da purè e verdura, e un dolce al cioccolato. Poi, attorno alle 18, l’hanno portata nella sala speciale. Le hanno infilato l’ago nel braccio alle 18.17 di mercoledì 26 giugno, venti minuti dopo è arrivata la fine. Le sue ultime parole sono state: «Questa non è una sconfitta. Questa è una vittoria. Sapete dove sto andando. Torno a casa con Gesù. Vi amo tutti». Una breve pausa. Poi: «Dio è buono». Kimberly McCarthy aveva 52 anni.
Il rituale ha segnato l’esecuzione numero 500 del Texas, lo stato americano dove il boia lavora di più. E ha chiuso per sempre il caso di Kimberky McCarthy, finita sul patibolo per omicidio.

Infermiera, una vita tribolata, seri problemi di droga, dipendente dal crack, Kimberly è stata riconosciuta colpevole per l’assassinio di una vicina di casa nel 1997, a Dallas. La vittima, Dorothy Boot, 71 anni, aveva accolto in casa la sua assassina, che si era presentata con la scusa di chiederle dello zucchero. Kimberly l’ha colpita ripetutamente al capo con un candelabro, poi l’ha finita con un coltellaccio. La stessa arma usata per tagliarle il dito e rimuovere la fede, venduta per 200 dollari, subito spesi per comprare altra droga. Un omicidio brutale.
La polizia lavora di gran lena, cerca elementi; non ci mette molto ad arrivare a Kimberly, legata ad altri due delitti dalle tracce di Dna. Kimberly nega, scarica la responsabilità su un paio di spacciatori; non le credono. Il primo processo è abbastanza rapido, le prove — secondo gli inquirenti — sono sufficienti. In difesa di Kimberly interviene l’ex marito, Aaron Michaels, fondatore del New Black Panther Party. Parole nel vuoto. La giuria, composta — con l’eccezione di una persona — tutta da bianchi, emette un verdetto di colpevolezza. Pena capitale. Nel 2001 il tribunale ordina una revisione: al momento del primo interrogatorio Kimberly non era assistita da un legale nonostante lo avesse chiesto. Si celebra un secondo processo. La colpevolezza è confermata.
Le associazioni per i diritti civili protestano a lungo, sostengono che il pregiudizio razzista può aver influito sulla decisione dei giurati, ritengono che ci fossero altre prove e altre piste per l’omicidio di Dorothy. Proteste che a nulla servono. Kimberly resta in prigione, nel braccio della morte del Texas, dove oggi si trovano altre nove donne e sette uomini in attesa dell’esecuzione nei prossimi mesi. In coda seguono altri, molti altri. Che aspettano di conoscere il loro destino. Un limbo, un’agonia, a volte con qualche sorpresa. L’esecuzione di Kimberly era prevista per lo scorso gennaio, ma il giudice l’ha sospesa all’ultimo istante. Un rinvio che però non ha cambiato l’ultimo capitolo della storia, con il solito confronto tra i favorevoli alla linea dura e i contrari. Dalla parte dei primi, i parenti di Dorothy, che hanno dovuto attendere un po’ di anni prima di considerare chiusi i conti. «A noi non importa se è l’esecuzione numero 500. Pensiamo solo alla giustizia che ci è stata promessa dallo Stato del Texas». Una promessa mantenuta.

Non la pensano così gli avversari della pena di morte. Fuori del carcere c’erano circa quaranta persone a protestare. Quaranta: qualcuna più del solito. I cronisti di nera sostengono che normalmente, a Huntsville, i contestatori non superano la decina. Un piccolo assembramento dovuto al numero 500, un simbolo ma nulla più, visto che lo Stato americano non ha alcuna intenzione di fermarsi. La legge è legge. E lo è ancora di più da queste parti. Appassionati e funzionari degli uffici di statistica precisano che Kimberly è stata la tredicesima donna a essere giustiziata negli Usa e la quarta in Texas. Ben più ampio il numero degli uomini: oltre 1.300 dal 1976, di cui 496 nelle galere texane. Al secondo posto della classifica la Virginia, con 400. L’avvocato di Kimberly McCarthy ha parlato di «pratica barbara, imposta esclusivamente o quasi sui più poveri e sulle persone di colore, un metodo che non dovrebbe avere spazio in una società civilizzata». Gli esperti aggiungono che lo Stato dovrebbe preoccuparsi delle inchieste per evitare errori fatali. A cominciare dagli esami di laboratorio: una traccia sottovalutata o non rilevata è il confine tra la vita e la morte. Critiche alle quali risponde il governatore Rick Perry citando alcuni cambiamenti introdotti nella legislazione locale per tutelare i detenuti: la possibilità di eseguire nuovi test del Dna su persone già condannate e lo standard più elevato per i difensori d’ufficio. «Credo che il nostro sistema funzioni bene — è la sua linea —. Uno può essere d’accordo o meno, ma noi crediamo nella nostra forma di giustizia».
Chi non si fa troppi problemi e non ha dubbi che le punizioni siano meritate è Charles Thomas O’Reilly. Per sei anni ha lavorato come capo guardia a Huntsville e ha seguito, personalmente, 140 esecuzioni. Ne ricorda poche, non la prima. In quei momenti «non c’è troppo da dire, ognuno conosce il proprio lavoro, sa cosa fare». Il processo finale, con il detenuto steso sul tavolo con l’ago nel braccio, richiede poco tempo, «tutto quello che devi fare è guardare uno che si addormenta».