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 2013  luglio 09 Martedì calendario

GOLPE A BAMAKO


Nella notte del 21 marzo 2012 un gruppo di militari subalterni depone il presidente maliano Amadou Toumani Touré (Att). I media internazionali si affrettano a denunciare la gravita dell’accaduto, ricordando che il Mali rappresenta un’àncora stabile e democratica nello spazio turbolento fra le sabbie del Sahara e il golfo di Guinea: il paese viene dipinto come un’eccezione rispetto alla deriva autoritaria di una regione che negli ultimi anni ha visto una successione di colpi di mano costituzionali e golpe militari [1]. Eroe nazionale dell’insurrezione del 1991 che condusse alla deposizione del dittatore Moussa Traoré, Att aveva evitato di confiscare il potere, non presentandosi alle elezioni del 1992. Eletto poi nel 2002 e confermato nel 2007, poco prima del golpe aveva inequivocabilmente chiarito che non si sarebbe ripresentato per un terzo mandato nel 2012.
Dalle cancellerie di tutto il mondo, sia pure con accenti e tempi diversi, piovono parole di condanna per i militari golpisti. Tuttavia, dietro la cortina di apparenze diplomatiche, un dato trova conferma nei cablo di WikiLeaks: la popolarità e il credito di fiducia del presidente, tanto in patria quanto all’estero, sono ormai in caduta libera. Affermare che prima del golpe il Mali fosse un’isola di democrazia multipartitica è falso nella sostanza. L’eccezione si è sbiadita nella norma: più di 140 partiti si contendono il voto di 14 milioni di abitanti, mentre le differenze ideologiche e programmatiche svaporano di fronte ai legami clientelari e alle pratiche di spartizione del bottino degli aiuti allo sviluppo. Le strade di Bamako raccontano di improvvise fortune di oscuri parlamentari e dei loro figli sorpresi alla guida di lussuose automobili, mentre un quinto della popolazione è alla fame [2]. Dopo vent’anni di «democrazia» lo scollamento fra consorterie politico-imprenditoriali e popolazione non potrebbe essere più evidente [3].
Interpretare la crisi maliana principalmente come conseguenza indiretta di quella libica o della primavera araba porta dunque fuori pista. L’implosione è innanzitutto il risultato dell’erosione della coesione sociale interna e di meccanismi di corruzione, collusione e cooptazione arrivati al punto di rottura. Pur senza la pretesa di spiegare ogni meandro della vicenda, questa prospettiva sembra tuttavia l’unica in grado di rendere ragione di alcuni paradossi altrimenti non spiegabili: perché condurre un colpo di Stato contro un presidente giudicato «incompetente» a un solo mese dalle elezioni? E perché una larga parte della società civile a Bamako si è mostrata solidale con i golpisti e con il loro assai improbabile intento di riforma dello Stato?

Placidi sconfinamenti
Attribuire la caduta del regime di Att unicamente alla destabilizzazione regionale provocata dalla crisi libica significa trascurare un dato incontrovertibile: il Mali non confina con la Libia. Fra Sebha e Kidal ci sono almeno 1.800 km di sabbie roventi. Eppure l’onda d’urto provocata dalla conflagrazione libica si sarebbe manifestata solo in Mali e non nei paesi confinanti, come Niger o Ciad, fragili Stati minati da recenti conflitti armati e altrettanto instabili dal punto di vista etnopolitico. Nonostante la risaputa porosità dei confini sahariani, non è plausibile ritenere che i duemila uomini pesantemente armati che da Banī Walīd (Libia) sono giunti nelle alture dell’Ifoghas possano essere passati in territorio algerino o nigerino all’insaputa delle rispettive autorità, e senza essere tracciati dai sistemi di sorveglianza che Stati Uniti e Nato tengono puntati sul Sahara.
In effetti, fonti di intelligence hanno confermato che nel corso dell’estate e dell’autunno 2011 i principali leader tuareg sono fuoriusciti dalla Libia alla volta del Mali. Fra questi, in luglio è scappato Ag Najem, in seguito divenuto capo di Stato maggiore del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (Mnla); in agosto ha varcato la frontiera Ag Bahanga, l’irriducibile ispiratore della rivolta tuareg che incendiò il Nord del Mali nel 2006; in settembre è toccato ai nigerini Ag Boula e Agali Alambo; perfino ‘Abd Allāh al-Sanūsī, il ricercatissimo responsabile dei servizi di sicurezza del regime di Gheddafi, è passato di lì in ottobre, diretto in Mauritania. Senza contare che sin dal gennaio 2012 è segnalata la presenza in Libia di Muḫtār Bilmuḫtār, trafficante sahariano e leader della katība qaidista dell’Ifoghas maliano, altresì soprannominato «il guercio» o «Monsieur Marlboro». «Sapevamo che il confine con l’Algeria era chiuso», ha detto Alambo alla stampa [4], confermando che tutti sono passati dal Niger, senza lasciare traccia sull’instabilità del paese.
Il Niger di Issoufou da prova di intransigenza diplomatica nei confronti dei vari movimenti ribelli maliani, siano essi di ispirazione etno-nazionalista, come l’Mnla, o islamico-salafita, come il Movimento per l’unicità e il jihād nell’Africa occidentale (Mujao) e Anṣār al-Dīn (Difensori della fede). Niamey sostiene entusiasticamente la necessità di un intervento armato nel Nord del Mali, a patto che a pagare sia qualcun altro. Tuttavia, dietro la sbandierata fermezza, traspaiono numerose ambiguità. Se nel giugno 2011 le autorità di Niamey intercettano un carico di 645 chilogrammi di esplosivo Semtex proveniente dalla Libia e presumibilmente diretto in Mali, il 5 settembre invece un convoglio di oltre 200 veicoli militari proveniente dalla Libia transita indisturbato per le vie di Agadez, la città nigerina crocevia dei traffici del Sahara. Il ministro degli Esteri inizialmente smentisce, ma poi non può che parzialmente confermare la notizia. Del resto, molti testimoni avevano assicurato di aver riconosciuto a bordo di uno dei veicoli Rhissa Ag Boula, l’ex leader ribelle del Movimento dei nigerini per la giustizia, ora consigliere speciale del presidente Issoufou. Significativamente, è lo stesso Ag Boula a prendere le distanze dalla proclamazione unilaterale d’indipendenza del Nord del Mali nell’aprile del 2012: «I tuareg del Niger rifiutano completamente ed energicamente questa dichiarazione d’indipendenza dell’Azawad», recita il comunicato ufficiale [5]. Alla luce delle comuni rivendicazioni storiche e della lunga tradizione di coordinamento politico-militare, la presa di posizione dei militanti tuareg nigerini appare singolare, specie se si considera che essi hanno deposto le armi solo nel 2010. Giova ricordare che nell’agosto 2011 proprio in Niger era rimasto ucciso in un misterioso incidente Ag Bahanga, l’unico leader in grado di federare le diverse anime del fronte ribelle tuareg [6].

Buoni uffici e buone clientele
Le contraddizioni nigerine acquistano valore se lette alla luce delle evoluzioni della politica estera francese nel Sahel. Parigi stringe in un soffocante abbraccio il regime di Niamey fin dal 1962, quando de Gaulle concede indipendenza e protezione militare in cambio dell’accesso alle ricche miniere di uranio nigerine a prezzi vantaggiosi. In termini energetici la Francia dipende dal Niger quanto gli Usa dall’Arabia Saudita. Significativo è che l’attuale governo sia figlio di un torbido colpo di Stato che ha posto fine ai tentativi dell’ex presidente Tandja di rinegoziare il prezzo dell’uranio venduto alla Francia. Una settimana prima del golpe in Mali, Issoufou incontra a Parigi gli allora ministri degli Esteri e della Cooperazione (nonché l’allora candidato presidente Hollande, tanto per non sbagliare). Del resto, a luglio è Niamey la prima meta del tour saheliano del neo-ministro degli Esteri Laurent Fabius, che intende discutere la delicata situazione del Mali.
Al momento della propria investitura, il navigato Fabius aveva dato prova di pragmatico realismo, ammettendo che «i governi cambiano, ma gli interessi della Francia restano». Nel contesto saheliano, Fabius alludeva a due fattori, intimamente connessi. Primo, il rapimento in Niger nel settembre 2010 di sette dipendenti del gigante francese del nucleare Areva. L’intelligence rivela che si trovano nelle mani di al-Qā’ida nel Maghreb islamico (Aqim), prigionieri fra le alture dell’Adrar, in Mali. Secondo, il lassismo e l’inefficienza del governo maliano di Att nella lotta ad Aqim [7], opinione condivisa con Algeria e Stati Uniti [8]. Bamako si giustificava con la cronica carenza di mezzi che però strideva alla luce dei generosi aiuti economici e militari profusi dall’Occidente nella «guerra al terrore».
Gli Usa avevano fatto del Mali il perno del dispositivo di sicurezza regionale, la Pan-Sahel Intiative, nata nel 2002 e poi evoluta nel 2005 in Trans-Sahara Counterterrorism Partnership. A parte qualche insignificante scaramuccia risalente al 2006, Aqim aveva tranquillamente consolidato le proprie posizioni nel Nord del paese senza incontrare resistenza da parte dell’esercito maliano [9]. Nel tempo si è consolidato il sospetto che fra Aqim e Att sussistesse un accordo (più o meno esplicito) di non aggressione e non interferenza, in nome del quieto vivere di tutti, tranne dei tuareg che abitano la regione concessa a terroristi e trafficanti di ogni sorta [10]. Del resto, dichiarando a più riprese che parlare del Nord del Mali equivale a parlare d’Algeria, Att non avrebbe potuto essere più esplicito [11]. In altre parole, i tuareg hanno visto aumentare il valore strategico del proprio territorio, trovandosi in casa un numero crescente e sempre meglio armato di jihadisti salafiti.
La «democrazia» maliana, trincerata dietro un’impettita retorica di patriottismo anticoloniale, ha sempre negato alla Francia l’uso della base militare di Mopti. Se Parigi adduceva la necessità di un più fermo e diretto impegno nel contrasto al terrorismo, Att sospettava che le motivazioni ufficiali servissero da paravento alle tradizionali mire egemoniche della Francia nella regione, minacciate dal crescente ruolo Usa a cui il Mali di Att forniva un’amichevole sponda. A questi dissapori malcelati si aggiungeva l’ostinato rifiuto del presidente di firmare un trattato di riammissione per i migranti maliani irregolarmente presenti in Francia, unico esempio di dissidenza in tutta l’area francofona, particolarmente sgradito a Sarkozy.
Allo scoppio dell’insurrezione tuareg nel Nord del Mali, nel gennaio 2012, queste tensioni avevano alimentato tesi complottiste sulla stampa di Bamako: la Francia avrebbe persuaso i combattenti tuareg presenti in Libia ad abbandonare Gheddafi, favorendo il rovesciamento delle sorti militari del ra’īs, e promettendo ai tuareg in cambio il Nord del Mali. In questo disegno, l’uomo di Parigi a Niamey avrebbe agevolato il transito delle truppe attraverso il Niger, mentre i tuareg, riprendendosi il proprio territorio, avrebbero aiutato la Francia e l’Occidente a liberarsi di Aqim. Alcuni episodi avevano rafforzato la plausibilità di questa congettura. Fin dall’inizio, l’Mnla, nella figura del portavoce Mossa Ag Attaher, ha beneficiato di una sorprendente e calorosa ospitalità sui media francesi, spesso in assenza di contraddittorio [12]. Pur escludendo l’eventualità di una partizione territoriale del Mali, Parigi non ha mai escluso il dialogo con i ribelli dell’Mnla, opzione invece negata ai movimenti islamisti insediati nel Nord del Mali e ai golpisti maliani guidati dal capitano Sanogo.
A rugare i sospetti non hanno aiutato le incaute dichiarazioni dell’ex ministro degli Esteri francese Alain Juppé, che il 7 febbraio scorso davanti al Senato ha definito «importanti successi» le conquiste dei ribelli tuareg ai danni dello Stato sovrano del Mali [13]. Infine, su iniziativa della Francia, il 4 aprile il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha adottato una risoluzione che richiama le parti al dialogo e alla ricerca di una soluzione pacifica. Una formulazione sorprendentemente generosa nei confronti dell’insurrezione tuareg, che ha sollecitato la cessazione delle violenze proprio due giorni dopo che l’Mnla aveva dichiarato raggiunti i propri obiettivi proclamando l’indipendenza dell’Azawad. Si noti, peraltro, che tale dichiarazione è avvenuta in francese (e non in lingua tamasheq o araba), tramite il canale televisivo France24. Queste imperizie diplomatiche hanno scatenato il mai sopito istinto anticoloniale e antifrancese di larga parte della società civile maliana [14]. È probabile che Att abbia cercato di servirsene, amplificandolo e affidando la propria salvezza alle abituali pratiche di potere che da anni corrodevano le fondamenta dell’edificio politico maliano. Di fronte all’urto travolgente di una rivolta dotata di mezzi sproporzionati attinti dagli arsenali libici, il meccanismo si è inceppato.

Il meglio del peggio
Negli ultimi mesi del 2011, Att è informato da algerini e statunitensi del riarmo dei diversi movimenti tuareg del Nord. Conscio della precarietà della situazione, il presidente diserta il summit dell’Unione Africana ad Addis Abeba nel gennaio 2012. Fra il 7 e il 10 gennaio, invia nella provincia di Kidal l’ex ministro Ag Erlaf – tuareg responsabile del programma speciale per il Nord Mali [15] – a parlamentare con i dirigenti dell’Mnla e con il leader salafita Iyyād Āġ Ġali [16]. Il piano di Att mira a scongiurare a ogni costo il confronto armato, a cui l’esercito maliano è impreparato. La parola d’ordine è cooptazione: all’Mnla viene proposto un ministero, ad Āġ Ġali il diritto di nominare un imam in ogni grande moschea e un qāḍī in ogni distretto. Ai soldati viene offerto di integrare le unità combattenti miste dell’esercito, beninteso nei ranghi graduati. La proposta viene respinta dai ribelli ma non manca di suscitare l’indignazione fra i militari di carriera, già demotivati per la scarsità di mezzi a loro disposizione [17]. La truppa è stanca di vedersi passare davanti uomini di dubbia fedeltà e capacità per motivi «politici». La gestione dell’esercito da parte di Att è storicamente caratterizzata da nepotismo, opacità e mancanza di meritocrazia: negli ultimi due anni il numero di alti ufficiali è raddoppiato; fra polizia ed esercito, Att ha nominato 52 generali nel corso dei suoi due mandati, contro i 18 in totale di tutti i suoi predecessori messi insieme. La goccia è prossima a far traboccare il vaso.
Consapevole che il tempo per i negoziati è scaduto, Att corre ai ripari, facendo ricorso al peggio del suo repertorio. Vengono mobilitate le diverse formazioni paramilitari antinsurrezionali, già impiegate contro le precedenti rivolte tuareg (a prezzo di gravi e documentate violazioni dei diritti umani) [18]. Tornano sulla scena la milizia Ganda Koy, composta prevalentemente da songhai, la Delta Force del generale Eihadji Ag Gamou, formata da tuareg della tribù cadetta degli Imoghad [19] e la milizia araba dello spietato Ould Meydou. Il 12 gennaio, due giorni dopo il fallimento della missione di Ag Erlaf, il multimiliardario arabo Mohamed Ould Aiwanatt si impegna a finanziare l’addestramento e il mantenimento della truppa mercenaria di Would Meydou. In cambio, Aiwanatt viene rilasciato dal carcere, dove scontava una pena per il suo coinvolgimento nel traffico dell’Air Cocaine [20], nel quale risultava implicato anche il sindaco di Tarkint e consigliere fidato di Att, Baba Ould Cheick.
Il 17 gennaio, con l’attacco alla base di Ménaka, scoppia la guerra. Ma è con lo scontro della settimana successiva, il 24 gennaio ad Aguel’hoc, che la situazione precipita. La partecipazione al fianco dell’Mnla dei salafiti di Anṣār al-Dīn e dei qaidisti guidati da Abdelkarim Le Targui [21] è accompagnata dalle agghiaccianti immagini dei soldati prigionieri maliani sgozzati impunemente [22]. Le prime a reagire, a partire dal 30 gennaio, sono le mogli dei soldati maliani della guarnigione di Kati, a pochi chilometri dalla capitale, preoccupate della sorte dei propri mariti, irresponsabilmente inviati al fronte senza adeguato equipaggiamento, munizioni e paga, contro forze pesantemente armate che non esitano a ricorrere al terrore. La protesta dilaga a Bamako e a Ségou: le strade sono invase, si improvvisano barricate e si bruciano pneumatici. I soldati contestano il criterio di selezione degli uomini da inviare al fronte, che risparmia sistematicamente i figli di politici e ufficiali. Il 10 marzo, 800 soldati maliani ufficialmente di stanza nell’area di Tessalit abbandonano senza combattere il campo di Amachach, consentendo ai ribelli di mettere le mani su blindati e cannoni anti-aerei, decisivi nella battaglia in ambiente desertico. Il giorno successivo, i soldati di Kati rifiutano di partire per il Nord.

Bamako non è più Bamako
Nel frattempo, il movimento di protesta si propaga lungo i gangli della ricca e articolata società civile maliana, la quale non aspettava altro che un’occasione adatta per regolare i conti in sospeso con Att: contadini senza terra espulsi dalle privatizzazioni e dal land-grabbing, bamakois sfrattati dai piani di «risanamento urbanistico», polizia, giornalisti... Il 18 marzo si tiene a Bamako una grande marcia di protesta dell’eterogenea alleanza. Visibilmente intimoriti, quattro ministri vanno incontro alla folla, promettono mari e monti e firmano tutto nero su bianco. Infine, il 21 marzo il ministro della Difesa Sadio Gassama va in visita al campo di Kati, in odore di ammutinamento collettivo: i soldati, infuriati, lo costringono alla fuga a suon di sassate. A questo punto il colpo di Stato è nei fatti già in corso, trascinato dalla sua implacabile logica: meglio rischiare la corte marziale che essere mandati al macello al Nord, e meglio imbracciare le armi e difendersi che rischiare la corte marziale. Così faranno i soldati di Kati.
A sorprendere non è tanto il malcontento della truppa, quanto l’assenza di un’opposizione consistente ai propositi sovversivi. È bastato un manipolo di soldati subalterni male addestrati e poco armati, a bordo di due veicoli portatruppe e di quattro blindati leggeri Brdm (su un totale di 40 acquistati dal Mali solo nel 2010) per avere la meglio sui berretti rossi della guardia presidenziale, la truppa d’élite addestrata dai Navy Seals americani. L’ipotesi di un tradimento, così come di un complotto internazionale ai danni di Att, ha ispirato infinite congetture, alimentate dal rifugio trovato dal presidente presso l’ambasciata americana [23]. Rimane il fatto che sul momento la maggioranza della società civile organizzata maliana accoglie il golpe come una liberazione: nella nottata del 21 marzo giungono ai golpisti le adesioni di sindacati, polizia, gendarmi e partiti di opposizione. Il 27 marzo, le stesse organizzazioni coordinano una manifestazione di sostegno alla giunta: per le strade di Bamako sfilano in 30 mila, cifra straordinaria per la capitale maliana. In pochi rimpiangono Att.
Lo stallo politico a Bamako a otto mesi dal golpe rivela le spaccature che attraversano la società del Mali, ormai ex «faro della democrazia» in Africa Occidentale. Al Nord i movimenti nazionalisti tuareg sembrano definitivamente sopraffatti dai ribelli jihadisti di Anṣār al-Dīn e del Mujao, legati ad Aqim da una fitta ragnatela di rapporti commerciali e familiari, ma incapaci di gestire il territorio conquistato [24]. L’estraneità delle popolazioni locali al rigorismo wahhabita d’importazione ha dato luogo a episodi di protesta, insubordinazione e contestazione che preannunciano una convivenza potenzialmente esplosiva. A Bamako, invece, si oppongono da un parte i partigiani del presidente ad interim (indeterminato) Dioncounda Traoré, espressione della vecchia classe politica collusa col regime di Att e fortemente voluto dalla Francia e dai suoi alleati regionali, mentre dall’altra i sostenitori del primo ministro Modibo Diarra, novizio della politica maliana e punto di riferimento della gioventù e dei movimenti della società civile. Minacce, aggressioni e sparizioni di giornalisti scomodi si susseguono e per le vie della capitale scende una cappa di intimidazione e repressione tanto densa quanto inedita.

Note:

[1] Dalla Guinea al Niger, fino al recente tentativo dell’ex presidente senegalese Abdoulaye Wade, sono numerosi i casi di presidenti che ottengono il rinnovo del proprio mandato contro le disposizioni della costituzione, o che non riconoscono i risultati delle urne (Costa d’Avorio). Veri e propri colpi di Stato militari si sono verificati negli ultimi anni in Burkina Faso, Mauritania, Guinea, Guinea-Bissau, Niger.
[2] Nelle regioni settentrionali del paese, durante la stagione secca la malnutrizione colpisce il 58% delle famiglie. Cfr. Mali Overview 2012, World Food Programme.
[3] A. TRAORÉ, Mali, chronique d’une revolte programmée, accessibile sul sito www.centre-cahba-bamako.org a partire dal 5 aprile 2012. Da anni Aminata Traoré paria del Mali come di una «democrazia affarista e corrotta».
[4] A. McGREGOR, «What the Tuareg Do After the Fall of Qaddafi Will Determine the Security Future of the Sahel», Jamestown Foundation, Terrorism Monitor, vol. 9, n. 35, 16/9/2011.
[5] «Des responsables touareg du Niger condamnent l’indépendance du Nord-Mali», Agence France Presse, 5/4/2012.
[6] Per quanto l’assenza di ritorsioni politiche o tribali sembri confermare l’ipotesi dell’incidente.
[7] A. BARLUET, «Paris tourne sans regrets la page du «mauvais élève» ATT», Le Figaro, 23/2/2012.
[8] Cablogramma BAMAKO 00000435 002 OF 002, 18C.
[9] Secondo l’intelligence francese, fra il 2008 e il 2011 gli effettivi di Aqim in Mali sono raddoppiati, passando da 200 a 400, Ennahar, 6/5/2011.
[10] A. TISSERON, «Enchevêtrement géopolitiques autour de la lutte contre le terrorisme dans le Sahara, Hérodote, n. 142, settembre 2011.
[11] L’Aube, 25/5/2007; al-Watan, 25/4/2009; L’Aube, 11/2/2011.
[12] Giova ricordare che l’altro «ufficio stampa» dell’Mnla è stato ospitato dalla Mauritania, solido alleato di Parigi. Lo stesso presidente della Mauritania ’Adb al-’Aziz avrebbe accolto con simpatia gli exploit militari dell’Mnla, ritenendo che il movimento tuareg potesse rappresentare un utile alleato nella lotta contro al- al-Qa’ida. Vedi «Mali: un désastre français», Le Nouvel Observateur, n. 2475, 12/4/12.
[13] «Combats au Mali: Paris réclame un cessez-le-feu immédiat», Agence France Presse, 7/2/2012.
[14] «Rebellion touarègue: pourquoi le Mali suspecte la France de jouer double-jeu», Jeune Afrique, 9/3/2012.
[15] Lanciato nell’agosto 2011, il Programme special pour la paix, la sécurité et le développement au nord-Mali rappresenta l’ultimo episodio della tradizionale gestione di Att della questione settentrionale. Sostenuto da Ue, Francia e Canada, e dotato di un budget di più di 50 milioni di euro, il programma è stato attaccato dalle organizzazioni tuareg per la gestione verticistica da parte del responsabile Ag Erlaf, per l’attenzione sproporzionata alla dimensione della sicurezza a discapito di quella sociale e per l’assenza di coinvolgimento delle popolazioni locali. Vedi «Mali: éviter l’escalade», International Crisis Group, n. 189, 18/7/2012, pp. 6-7.
[16] Ag Erlaf è amico intimo del leader dei salanti di Ansar al-Din, Iyyad Ag Gali, di cui è stato consigliere speciale in occasione della negoziazione degli accordi di Tamanrasset del 1991. Il figlio di Ag Erlaf, battezzato Iyyad in suo onore, è arruolato nelle file dei ribelli.
[17] Il Mali dispone di un esercito di poco superiore ai 12 mila uomini, per un territorio di 1.240.000 kmq: ovvero, in media un uomo ogni 100 kmq.
[18] A. MORGAN, «The Cause of the Uprising in Northern Mali», thinkafricapress.com, 6/2/2012.
[19] L’affiliazione tribale fornisce una chiave di lettura all’interno del complesso mosaico del conflitto dei Nord Mali. La stratificazione clanica dei tuareg è infatti motivo di divisioni ancestrali sfruttate abilmente da Bamako. I clan nobili degli Idnan (a cui appartengono numerosi aderenti all’Mnla) e degli Ifoghas (a cui appartengono invece Gali e Ag Bahanga) sono divisi nella lotta per la supremazia, ma sono uniti nell’opposizione al clan vassallo degli Imghad, su cui quindi Bamako si appoggia in nome di una retorica egalitaria tesa a dividere il fronte tuareg.
[20] Per ulteriori informazioni sull’affare Air Cocaine si veda S. DANIEL, «La véritable histoire de l’avion de la cocaïne», Rfi, 24/9/2009; e anche S. JULIEN, «Le Sahel comme espace de transit des stupéfiants», Hérodote, n. 142, settembre 2011.
[21] L’emiro conosciuto come Abdelkarim Le Targui (ovvero: il tuareg) è cugino di Iyyad Ag Gali. Il suo vero nome è Ahmad Ag Ama; comanda la falange al-Ansar che fa capo alla katiba dell’emiro Abu Zayd, ritenuto responsabile del rapimento dei dipendenti di Areva in Niger.
[22] Le immagini filmate sono rese note solo a partire dal 13 febbraio, dal ministro francese alla Cooperazione Olivier de Raincourt. L’Mnla ne confuta la veridicità, accusando l’esercito maliano di avere realizzato un montaggio. Il 22 febbraio una commissione di inchiesta composta esclusivamente da membri dei servizi maliani confermerà la versione francese, senza fornire le prove. Sia l’Associazione maliana per i diritti umani sia la Federazione internazionale per i diritti umani convalideranno la versione ufficiale.
[23] M. GROGA-BADA, «Mali: heure par heure, le récit de la fuite d’Att», Jeune Afrique, 7/4/2012.
[24] A. NOSSITER, «Rebels Struggle to Run North Mali», International Herald Tribune, 3/9/2012.