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 2013  luglio 07 Domenica calendario

L’ORIENTE TRASOGNATO DI MANGANELLI

Tornarono le Furie. E le angosce canagliesche: in una convulsione di solitudine e tetraggine, di gravezze e lune morte della ragione. Intossicato di sé, e devastato, Manganelli alla fine si risolse. Instaurò una corrucciata trattativa con l’oscura fatalità. Venne a patti con la labilità della depressione. E si impose responsabilità e libertà. Contrasse in pochi segni di scrittura nudamente diagnostica e incalzante la vastità del disagio.
Si raccontò, misurando il tempo e prospettando argini e alleggerimenti, tutto declinando da un gesto amico e soccorrevole di Vittoria Guerrini in arte Cristina Campo; e dalla prima seduta nello studio dello psicoterapeuta berlinese Ernst Bernhard, mentre dalla compagna Ebe Flamini continuavano a spiccarsi «i raggi d’attorno», leopardianamente apparendo a lui «dèa» abbagliante piuttosto che «donna» di amorosa inesattezza. Scrisse di furia, ma ordinatamente e senza ripensamenti, su una pagina di quaderno: «Penso che vedere la Vittoria Guerrini sarebbe un gesto di libertà. E io ne ho bisogno. Lo farò. Fu lei a mandarmi da Bernhard; ho chiamato, prima seduta 2 aprile 1959; è il 23 maggio 1961. Non sono ancora padrone di me. Lo sarò mai? Venticinque mesi sono molti, vero? Sì sono molti. Ma ancora voglio stringere i denti: è il mio compito, ora. Voglio essere libero: essere me stesso; non crollare davanti ai miserabili miti della mia infanzia. Vàttene, sventurato Edipo. Il cuore batte (di più). Lascialo battere. Poi si calma. Le sue furie non contano. Conta guarire. Conta la libertà. Conta la solitudine, che non nego, anzi è il presupposto dell’amore. Conta il rapporto con una Magna Mater impersonale, forse un Tao (non una donna sia Ebe). Non una divinità sia Ebe, volevo scrivere. Ma una donna. Dolce, aspra, viva, non giovane, ansiosa e degna d’amore; una donna capace di stanchezza, di malattia, di paura, di disordine; bisognosa di carezze, di amore, di pareti (lei non lo sa)».
Nel maggio del 1961, Manganelli aveva già portato a termine la prima stesura di Hilarotragoedia; e aveva dato inizio alla revisione del "libro". Ebe Flamini gli ribatteva le pagine corrette o rifatte in tenuissima scrittura. Era sollecita e devota. Lo incalzava e gli andava incontro. Manganelli si sentiva «abitato» dall’«anima di cerva» della compagna. E tuttavia avvertiva una lontananza, una nobile distanza. Si condannava alla sofferenza. Catalogava i gesti di Ebe in un suo personale prontuario del «distacco archeologico». Da lei voleva tuttavia essere «riconosciuto»: illuminato, nel baratro, dal «verde grigio» dei suoi «occhi gatteschi»; e consolato dalle manifestazioni di olimpica serenità della sua natura «regale». A Ebe aveva scritto, da Roma, il 24 agosto del 1960, con esultanza, dopo averla chiamata al telefono più volte, inutilmente: «Mia carissima, ho finito or ora di parlare con Imperiali, dell’Ismeo: e gli ho detto che non intendo andare a Karachi. Con un lungo sospiro ho deposto il microfono, al termine del colloquio: un sospiro senza rammarico, e insieme affettuoso a una parte di me che ha smaniato e psicobavardato per non poche settimane. Per il momento ho ancora da fare qui. A Karachi ci sono strade, oggetti, suoni che in qualche modo portano un lievissimo senso della mia presenza: curiosamente, questa strana istoria mi ha allargato, esteso, frappato a più spumose dimensioni. Ho viaggiato». Manganelli non voleva allontanarsi da Ebe. E poi pensava già a Hilarotragoedia. Non gli era stato facile prendere una così netta decisione. Con una semplice scrollata di spalle, aveva dovuto mettere in calma una psicomachia durata mesi. A Karachi, in Pakistan, aveva lasciato le orme disperse di un viaggio consumato solo nel desiderio. Aveva passeggiato dentro un sogno, tra immaginarie configurazioni, senza che la risonanza di quei passi fantastici cessasse mai di aprirgli illusioni di vita vissuta. Manganelli continuò infatti ad alimentare il suo sogno con le letture. Si tenne aggiornato sulla storia, la vita e la politica del Pakistan (...). E solo nel 1979 gli capitò di toccar terra; e di entrare davvero a Karachi, con la devozione dovuta a una città promessa. Scrisse: «Amabile città è Karachi... Io ho un antico, per me intenso rapporto con questa città, giacché vent’anni fa tutta la mia vita fu sul punto di cambiare, mi si propose di venire a lavorare qui appunto, in questa città che vedo ora per la prima volta; è dunque un nome che ho pensato innumere volte, e mi si perdonerà se mi scopro un poco pellegrino divertito» (...).
Dietro la pagina dattiloscritta si acquatta un avverbio, «misteriosamente», tanto più insinuante quanto più insidioso è il frego che pretende di cancellarlo mentre lascia che la variante si legga nella sua interezza: «Giacché misteriosamente, vent’anni fa mi venne offerto una sorta di incarico...». Il silenzio sull’Ismeo, sull’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente di cui era segretario generale Mariano Imperiali, potenzia l’arcano. Poche pagine dopo quelle dedicate a Karachi, Manganelli ricorda le campagne archeologiche dell’Ismeo in Pakistan. Ma trascura di mettere in correlazione con le attività culturali dell’Istituto, nei paesi asiatici, il mandato che l’avrebbe destinato a Karachi. Rimane da spiegare la presunta macchinazione adombrata dalla cancellazione, e lasciata sonnecchiare sulla carta come proiezione di un sospetto che (a ragione) continuava a lampeggiare nella mente di Manganelli. Presidente dell’Ismeo era l’archeologo e orientalista Giuseppe Tucci: l’«italiano dal viso di indiano», che aveva salvato l’analista di Manganelli, l’ebreo Bernhard, da un campo d’internamento fascista; l’indologo al quale lo psicoterapeuta junghiano era legato da amicizia, gratitudine e collaborazione. A Tucci era vicino anche Manganelli, che a lui si rivolgeva per suggerimenti bibliografici (...).
Manganelli sospettò sempre che dietro la proposta della sua trasferta a Karachi ci fosse un suggeritore cauteloso. Era ovvia la risalita da Imperiali a Tucci. In cima alla scala però non poteva che esserci Bernhard, interessato al «depotenziamento» dell’io di un paziente «nevrotico» e «vigliaccamente» sedentario, che riluttava a modificare i propri conti con la realtà: a collocarsi diversamente, dopo avere scelto (junghianamente) un punto di osservazione lontano e non europeo; e a misurarsi con la «discontinuità», con la frattura delle abitudini, con un tempo non più omogeneo, e con un rapido cambiamento del «qui». A Manganelli era stato dato un percorso. Non l’aveva scelto. Comunque l’interessato non si sentì di affrontarlo. Non era in grado di gestirlo e reggerlo. Ci vorranno anni perché Manganelli si convinca a cambiar luoghi e climi, a traversare cieli e a «girar regioni»: non per fare esperienza del mondo e di ciò che esso è, ma per fare «esperienza» di sé «con» l’altrove e con il diverso; non senza gettare uno sguardo sgomento, di blanda e umoristica derisione, sulla sua goffaggine di «gnocco» afflitto dalla volgarità di paperoni croceristi e di sprovveduti dilettanti dell’esotico e del pittoresco, di pavido borghese con occhiali e cavigliere, di professore pingue e «demente» che paga «tasse d’ansia» e si sbriciola o dissolve se non si aiuta con la camicia di forza di tranquillanti e analgesici, di burla vagante che ora occupa giocattoli ipertrofici che ancheggiano sulle loro quattro ruote e, come cose millenarie, aspirano all’«errore» e al museo, ora ventri di cetacei con le ali per trasvolare e volteggiare, stando a coccoloni, e avendo di che sedere almeno, mentre scorrono sotto, e si dipanano, brani vari di atlanti e aneddoti geografici. Fu così che un «professore nevrotico, diventato poi pensionato», imparò a trasformarsi in «gazzettiere» (...): in inviato speciale, in invitato in delegazioni, in viaggiatore su commissione, in professionista del viaggio e della scrittura di viaggio. Alla sua leggenda, Manganelli provvide da solo.