Giuseppe Sarcina, Corriere della Sera 09/07/2013, 9 luglio 2013
FAME ZERO, IL SOGNO DI SONIA GANDHI
Quasi 800 milioni di persone con le dispense e i frigoriferi (quando ci sono) completamente vuoti. Un’umanità sterminata. È l’enorme, misero retrobottega dell’India, anzi dell’«Incredible India», come recita lo slogan fortunato dell’Ufficio turismo.
Il governo guidato da Manmohan Singh ha deciso di affrontare la questione cardine, si potrebbe dire l’eterna questione dell’India: due terzi della popolazione (800 milioni di abitanti, appunto, su un miliardo e duecento milioni), vive di stenti; 217 milioni sono malnutriti o, semplicemente e drammaticamente, non hanno nulla da mangiare.
L’esecutivo ha emanato un decreto, mercoledì 3 luglio, dopo che il disegno di legge «Food Safety» si era impantanato in Parlamento, bloccato dall’opposizione. Le misure principali sono quattro: vendita a prezzi simbolici di riso, grano e miglio, i cereali di base della cucina locale; sovvenzioni per acquistare gas da cucina destinate al 75 per cento della popolazione rurale e al 50 per cento degli abitanti delle città; distribuzione di pasti a tutti i bambini poveri con un’età compresa tra 6 mesi e 14 anni (metà dei bambini sotto i cinque anni è sottoalimentata); cibo gratuito e un sussidio di 100 dollari una tantum a ogni donna incinta.
Gli osservatori occidentali e, in particolare, i funzionari dell’Onu, hanno accolto con favore l’iniziativa. In India, invece, è nato un caso politico. L’Indian National Congress, il partito al potere presieduto da Sonia Gandhi, è sotto assedio. Gli avversari liberal-democratici sostengono che si tratti di una manovra elettorale (il prossimo anno si vota) il cui costo manderà fuori controllo i conti dello Stato.
Argomenti discutibili. Certo, il governo intende spendere 6 miliardi di dollari praticamente a fondo perduto, che andranno ad aggiungersi ai 15 già stanziati per il sostegno agli agricoltori. Totale: 21 miliardi di dollari. Troppo? Dipende da come si guardano i numeri del bilancio. Il capitolo della Difesa, per esempio, assorbe da solo ogni anno 46,8 miliardi di dollari (settimo volume di spesa nel mondo).
In realtà il tentativo del governo di New Delhi andrebbe valutato considerando il quadro generale della società indiana. Nel grande Paese vivono 1 miliardo e duecento mila persone, distribuite in circa 246 milioni di nuclei familiari. Due terzi, 168 milioni di famiglie, risiedono nelle sterminate aree rurali; 78 milioni nelle città e nelle megalopoli. I contrasti, gli squilibri dell’India sono purtroppo parte integrante dell’identità nazionale, come il curry, il cricket o il tè. Per coglierne il profilo sociale basta ragionare sui «fondamentali» della vita quotidiana. Nel 50 per cento delle case indiane squilla almeno un cellulare, ma non c’è il bagno. Esistono due Indie, quella urbana e quella rurale. L’81 per cento delle case cittadine ha una toilette; in campagna solo il 30,7 per cento. Il 92 per cento delle famiglie inurbate può contare sull’elettricità; contro il 55 per cento dei contadini. Il 65 per cento degli indiani di città possiede almeno un fornello a gas; in campagna la percentuale scende a un misero 11 per cento e qui il 64 per cento delle famiglie usa la legna per cucinare (ecco perché servono le sovvenzioni del governo per comprare le bombole).
Vandana Shiva, nota attivista in difesa dei diritti umani e dell’ambiente, sostiene che la mossa voluta da Sonia Gandhi distruggerà le piccole imprese agricole, consegnando l’intera filiera delle materie prime alle multinazionali. L’economista premio Nobel Amartya Sen (non certo un sostenitore delle grandi corporation), invece, appoggia il piano. In verità l’agricoltura indiana è tarata da gravi ritardi. Ogni anno tonnellate di grano finiscono al macero, perché non esistono depositi sufficienti per lo stoccaggio. E poi alligna la micidiale tassa occulta della corruzione. È stato calcolato che solo il 42 per cento dei sussidi governativi arriva a destinazione. Il resto vola nelle tasche dei funzionari e dei politici. Tra i non molti a ingrassare in quel Paese. Almeno finora.
Giuseppe Sarcina