Franco Venturini, Corriere della Sera 09/07/2013, 9 luglio 2013
LA TRAGICA NORMALITA’ DI UN COLPO DI STATO SEMPRE MENO ANOMALO
In Egitto il golpe anomalo diventa tragicamente normale. Gli uomini in divisa che sparano sulla folla appartengono alla triste iconografia degli interventi militari, e la possibile presenza di provocatori sul luogo della strage, così come la versione dai fatti fornita dall’esercito, non modificano una immagine che ora mette in imbarazzo chi aveva dato un benvenuto troppo ingenuo all’irruzione sulla scena dei generali.
Pare arrivato il momento di mettere da parte le dispute semantiche e di guardare alla sostanza, vale a dire alla montagna di pericoli che grava sugli egiziani ma anche su noi europei mediterranei (singolare ma straordinariamente significativa, la coincidenza con il viaggio di Papa Francesco a Lampedusa). Il golpe c’è stato, perché in democrazia una moltitudine che protesta può delegittimare, ma non abbattere chi esce vincitore dalle urne. Resta che quindici milioni di egiziani in piazza ci sono andati per dire «basta» a Morsi e ai suoi Fratelli musulmani, dimostratisi inetti nel governare quanto insidiosi nella pretesa di imporre il loro settarismo religioso. La soluzione migliore poteva, doveva essere che i militari mettessero sotto tutela Morsi senza abbatterlo e lo spingessero a formare un governo di coalizione anticipando nel contempo le elezioni presidenziali. Per loro incapacità o perché frustrati (come i loro finanziatori Usa) dai testardi rifiuti di Morsi, i militari egiziani invece di insistere hanno scelto la via più breve e traumatica. E così hanno scoperchiato tutti i mali della profonda polarizzazione politica, economica e religiosa dell’Egitto post Mubarak e post Piazza Tahrir 2011.
L’economia, prima di tutto. Ai ragazzi della «prima rivoluzione» erano state promesse — inizialmente dagli stessi militari, che controllano il 40 per cento del business nazionale — risposte capaci di arrestare il declino. E’ accaduto il contrario, e qui Morsi ha la responsabilità della sua inefficacia: niente lavoro, turismo in ulteriore crollo, impennata dei prezzi, scarsità endemica di energia elettrica e di carburanti, riserve monetarie e salari pubblici sostenuti unicamente dai prestiti del Qatar. Ora forse gli aiuti arriveranno anche dalla rivale Arabia Saudita, ma sono l’Occidente, e in particolare il Fondo monetario, a dover decidere cosa vogliono fare. Il dilemma è semplice: aiutare senza troppe condizioni o lasciar crollare l’Egitto.
Poi serve — lo dicono tutti — un rapido ritorno al processo elettorale e democratico. Ma malgrado le assicurazioni fornite in questo senso dal Presidente provvisorio, il clima di violenza non sembra essere quello più adatto. E non si possono più cancellare o mandare in clandestinità, come faceva Mubarak, i partiti dei Fratelli musulmani e dei salafiti: alla prossima prova elettorale loro ci saranno, e con la spinta mobilitante di quanto sta accadendo non è sicuro che perdano. Soprattutto i salafiti, che l’Occidente teme più di chiunque e che sono già imparentati con i jihadisti.
E ancora. Esistono gli interessi europei, esistono gli interessi Usa, ma nessuno ha preoccupazioni più legittime, e più a rischio, di quelle di Israele. Gli islamisti subiscono una ulteriore radicalizzazione di cui non si sentiva il bisogno, e non è sicuro che i militari, peraltro non compatti al loro interno, possano restare per sempre di guardia. La situazione nel Sinai peggiora. Diventa urgente confermare e rafforzare il trattato di pace egitto-israeliano, ma la cosa risulterà ardua fino a quando la società egiziana resterà preda di tutti gli estremismi. Ahmed al Tayeb, rettore dell’università sunnita di Al Azhar, predicava ieri la riconciliazione nazionale per evitare una guerra civile. Lui non è sempre un moderato. Ma forse stavolta ha capito meglio di altri che l’orlo del burrone è vicino.
Franco Venturini