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 2013  luglio 07 Domenica calendario

CHOC SUL WSJ: «USCIRE DALL’EURO? FACILE»

Uscire dall’euro? Se ne può parlare, finalmente. Proprio quando, grazie all’azione di Mario Draghi (e a gli sforzi dei popoli della cosiddetta «periferia d’Europa») scende la febbre attorno alla moneta unica, il tema della possibile uscita abbandona il girone dell’inferno dei tabù e conquista tribune di tutto rispetto, come «Barron’s», il più autorevole magazine finanziario americano, che fa parte del gruppo di The Wall Street Journal. Il settimanale ospita infatti un lungo intervento di Ross McLeod (ripreso anche sul sito del Wsj), associato dell’Australian University Crawford School dal titolo esplicito: «Come lasciare l’euro».
L’ipotesi di un’uscita, attacca McLeod, è associata alla paura di dover affrontare una fase transitoria in cui gli euro potrebbero esser confiscati e sostituiti d’imperio da una moneta nazionale di valore incerto, con la conseguenza di scatenare anni di caos, liti in tribunale o peggio. Ma tutto questo, obietta l’autore, si può evitare. La Grecia, il Paese preso come esempio, potrebbe reintrodurre una moneta nazionale lasciando al mercato il compito di fissarne il valore. La banca centrale dovrebbe dichiarare la propria disponibilità a comprare euro da banche e privati utilizzando le nuove dracme. Il processo dovrebbe essere volontario ma, dopo un periodo di transizione, le transazioni col settore pubblico dovranno avvenire solo in dracme. Ma il tasso di cambio? La banca centrale ne fisserà uno iniziale, senza promesse sul tasso futuro. Semmai stabilirà la durata della transizione (tre anni) e la quantità di euro che s’impegna a comprare.
Una volta che il sistema supererà la fase di rodaggio e ci sarà una quantità sufficiente di nuova moneta, la banca centrale potrà recuperare appieno i poteri di signoraggio della moneta. Con quali vantaggi per Atene? Mc Leod sottolinea che la ritrovata indipendenza monetaria non risolverà di per sé i guai della Grecia. «Anni di finanza pubblica irresponsabile e di omessi controlli nei confronti del sistema bancario non si cancellano ripudiando l’euro», ammonisce il professore, che vanta una lunga esperienza in materia di crisi, per aver operato in Indonesia come esperto del Fondo Monetario negli anni più duri dell’emergenza asiatica. Ma quel che conta, conclude, «è capire che l’uscita dall’euro non equivale ad una condanna all’inferno: un passo indietro con ordine e senza far drammi è possibile».
Che valore attribuire alle tesi del professor McLeod? Agli esperti l’ardua sentenza. Merita però segnalare che la novità dell’articolo cade in un clima nuovo nella cosiddetta «periferia» d’Europa, stremata dai tagli ai consumi, ma con un orgoglio e un’autostima nuovi. Prendiamo il Portogallo, che nel 2008 accusava un disavanzo delle partite correnti del 13% del Pil e quest’anno sarà in surplus dell’1 e l’anno prossimo, secondo Citibank, del 3, poco sotto alla Germania. Per ottenere questo risultato, Lisbona ha sopportato sacrifici e penitenza. Ma alla fine, messo a posto il saldo delle partite correnti grazie al crollo dei consumi e all’aumento dell’export, è quasi in regola, ovvero quasi pronto dal fornire la garanzia che preme a Berlino: stare in piedi senza far correre il rischio ai tedeschi di prestare un solo quattrino.
Ma, una volta giunti a quel punto, gli ex poveri potrebbero chiedersi che senso può avere l’appartenenza all’euro, moneta che mette al riparo la Germania dal rischio competitivo di altre economie. In fin dei conti, si può puntare al grande accordo di libero scambio con gli Usa anche senza euro. Si chiede nella sua nota settimanale Alessandro Fugnoli, strategist di Kairos: «È possibile che la fine dell’euro, se mai ci sarà, non avvenga con un cataclisma, come si è sempre pensato, ma con l’uscita silenziosa di qualcuno che i compiti li ha fatti quasi tutti e che a un passo dal traguardo, per misteriose ragioni, decide di andarsene? Il Portogallo, questa settimana, l’ha fatto pensare».