Giampiero Mughini, Libero 7/7/2013, 7 luglio 2013
LA POLITICA MALATA VENDE CIÒ CHE NON HA
«Bentornato futuro». È la dicitura che campeggia su un manifesto affisso per le strade di Roma a celebrare la «Festa dell’Unità», e dov’è la gigantografia di una ragazza giovane che si affaccia alla finestra e sorride. Sorride perché lo sta vedendo il futuro e le sue meraviglie, che saranno di certo annunciate per nome e cognome alla festa dell’Unità, festa cui ovviamente faccio i miei migliori auguri. Magari loro, o chiunque altro e di qualsiasi altra parte politica, lo sapessero il futuro che attende le società occidentali. Ovvero che ne sarà di noi quando una parte del peggio di questa crisi sarà passata, e ammesso che passi davvero.
Che ne sarà di noi, delle nostre pensioni, dei lavori possibili per le giovani generazioni, se sì o no ci sarà una protezione sanitaria semigratuita per tutti, se sì o no sussisterà la scolarizzazione di massa, se sì o no uno che lavora la domenica continuerà a pagare oltre il 50 per cento del reddito che gli viene da quel lavoro, se sì o no le nostre imprese continueranno a pagare sino a due volte le tasse che pagano le corrispondenti imprese europee, se sì o no i comuni avranno i soldi di che raccogliere la monnezza e tenere illuminate le strade la notte. Purtroppo di tutto questo non ne sa niente nessuno di quelli che fanno la politica italiana oggi. La politica italiana oggi è tutta concentrata se dire sì o no a Daniela Santanchè quale vicepresidente della Camera, una camera dov’è regina una che dice un «no» sprezzante a un invito ufficiale della Fiat, e non sono sicuro che Nilde Jotti (una ex presidente della Camera) quel no lo avrebbe pronunciato con tale asprezza. Per il semplice fatto che non rientrava nei suoi compiti istituzionali. «Bentornato futuro». Ancora una volta la politica vende quello che non ha. E a differenza che in altri campi, dove le aziende che vendono frigoriferi, auto, camicie, quelle auto e quelle camicie effettivamente le producono, altro discorso se siano buone o no.
Perché esattamente questo è il punto della tragedia epocale che stiamo vivendo noi italiani. Mettiamo che il peggio passi, e dopo? Durante questi mesi ci siamo affannati a maledire le auto blu e le spese troppo alte dei nostri mille parlamentari, tanto che il Movimento 5 Stelle ne ha fatto un’epopea della restituzione di quel che i suoi parlamentari non hanno speso in pranzi e soggiorni vari a Roma. Lo hanno esibito quell’assegno da oltre un milione di euro, e hanno fatto benissimo ad augurarsi che altre forze politiche diano prova di una tale sobrietà. Ho ascoltato in tv il capogruppo dei senatori stellati, un bravo ragazzo della quinta ginnasio, il quale spiegava come lui vada avanti a forza di panini e solo di quelli chiede il rimborso. Bravissimo. Non sono convinto che sia lì la chiave dei nostri disastri, se sì o no i mille parlamentari si fanno uno spaghetto all’amatriciana e magari ci mettono sopra un bicchiere di vino. Semmai sarebbe auspicabilissimo che dai mille che sono scendessero a 300-400, più che sufficienti alla nostra vita democratica.
Così come non sono affatto convinto che il non pagamento dell’Imu sulla prima casa sia una così grande panacea sulla morsa fiscale di cui soffrono le persone e le famiglie nell’Italia del terzo millennio. Vedo che passano i mesi e che non vengono fuori da nessuna parte i soldi di che compensare l’eventuale rinuncia all’Imu sulla prima casa da parte dello Stato e dei comuni. Alcuni tra i nostri migliori commentatori si chiedono come sia possibile che lo Stato non trovi i quattro miliardi di che compensare la perdita dell’Imu dato che ne spende ogni anno ottocento o qualcosa di più. Però nessuno indica dove trovarli. Dando un calcio a quegli enti inutilissimi che sono le province in Italia? Ma dandolo come questo calcio, con un colpo di matita sulla carta, e poi che ne fai di quelle decine e decine di migliaia di italiani che dal lavorare nelle province ne traggono un reddito? Li fucili a piazzale Loreto? Oppure facciamo un altro esempio. Certo che i 25mila forestali assunti dalla Regione Sicilia sono una bella spesuccia annua, e tanto più che probabilmente mille o duemila sarebbero più che sufficienti (in Veneto ce n’è 400). E allora che fai, li licenzi? Vorrebbe dire che all’indomani quelli vanno a rinfoltire le truppe degli eredi di Totò Riina. E poi vorrebbe dire rinnegare il «keynesismo» di cui si è nutrita la politica economica italiana degli ultimi 40 anni. John Maynard Keynes diceva che devi pagare uno perché faccia una buca per terra e poi la riempia di nuovo. Non importa niente che sia un lavoro che non serve a nulla. L’importante è che quel signore che buca la terra abbia un reddito e lo spenda e faccia girare il motore dell’economia. Keynes aveva le sue mille ragioni, solo che non aveva fatto i conti con uno Stato il cui debito complessivo fosse quello dello Stato italiano. Un debito che fatichiamo ad aumentare di poco e non di tanto, come pure qualche sciagurato vorrebbe e spera.
Keynesismo sciagurato a parte, la situazione è drammatica. Prendiamo le pensioni. Quarant’anni fa il rapporto tra quanti lavoravano e versavano i contributi e quanti usufruivano delle pensioni perché ultrasessantacinquenni era di due e mezzo a uno. Nel frattempo quelli che lavorano sono scesi di molto e gli aventi diritto alla pensione sono aumentati di molto. Oggi il rapporto è di uno a uno. Uno paga i contributi e uno riceve la pensione, e meno male che almeno a questo il governo presieduto da Mario Monti ha messo mano. Solo che nel lungo periodo uno che paga e uno che prende resta un rapporto insostenibile, altro che «bentornato futuro». E lo stesso vale per la scolarizzazione di massa che era stata una grande conquista dell’Italia di mezzo secolo fa sotto forma di una scuola pubblica aperta a tutti. Vale ancora quell’apertura illimitata in un’Italia in cui quella scuola pubblica non prepara più ad alcun lavoro possibile e reale? Io non so rispondere, ma di certo non sa rispondere nessuno della politica italiana. Né quelli che frequentano la festa dell’Unità né gli altri.