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 2013  luglio 09 Martedì calendario

I LAVORATORI TEDESCHI SONO FELICI

I lavoratori tedeschi sono felici, o quasi tutti. Forse il segreto della superiorità teutonica sta tutto qui: non l’alta tecnologia, il rapporto qualità/prezzo, l’efficienza, il costo del lavoro, le tasse, i sindacati, ma una questione psicologica. Vanno volentieri in ufficio o in fabbrica, e da ciò derivano le altre qualità.
Si applicano con gioia e l’auto che esce dalle loro mani è migliore della nostra. Il coefficiente di soddisfazione dei lavoratori è dell’88,3%, e non siamo neanche al massimo. In Danimarca si raggiunge il 94,9%, i britannici seguono con il 92,6, gli olandesi con il 92,2 e i norvegesi con il 91,3. Sono tutti nordici quelli che stanno in testa.
Mi aspettavo, lo confesso, di trovare gli italiani in coda, almeno basandomi sulla mia impressione quando mi trovo nella mia Roma, dove dai tassisti ai commessi, dai baristi ai semplici passanti, mi sembrano tutti arrabbiati neri. E invece, nella scala della soddisfazione lavorativa, siamo al nono posto con il 79,5%, di poco avanti ai francesi. Quindi sono costretto a rettificare, e lo faccio volentieri: se il made in Germany batte il made in Italy non dipende dai lavoratori. Dieci punti di differenza, se si è a una quota molto alta, non possono dare un vantaggio decisivo.
A leggere bene la statistica, sempre a crederci, quel che è più interessante sono le motivazioni: in Germania, più dello stipendio, contano le qualità del capo. Se il direttore sa dare i giusti impulsi si lavora con meno stress, si rende di più e si torna a casa soddisfatti. È il principio dei trainer a calcio: perché con uno si vince lo scudetto e con l’altro si rischia la retrocessione, anche se i giocatori sono gli stessi e giocano seguendo gli stessi schemi? Perché un mister sa consolare il terzino, e far credere al mediano di essere uguale a Maradona.
Il 93,9% ha indicato il capo per spiegare la sua soddisfazione. Si preferisce un buon capoufficio a uno stipendio più alto e alle prospettive di carriera. Ma solo il 69% ha aggiunto di essere contento del suo.
Così la Welt, invece di accontentarsi, commenta che in Germania «ci sono ancora larghi margini di miglioramento». I giudizi sui capi smentiscono un altro pregiudizio che nutriamo nei confronti dei tedeschi: tutti dall’indole nazista, perfino se votano a sinistra, tutti despoti pronti a impartire ordini che non si possono discutere. E invece è il contrario, come mi spiegava Giuseppe Vita, l’italiano più apprezzato dai tedeschi, che, giunto in Germania come giovane laureato in medicina, ha finito per dirigere la Shering, la più importante società di Berlino, e oggi dirige Unicredit.
«In Francia», dice Vita, «un direttore deve dare ordini ai suoi collaboratori. Se chiede un parere, se cerca di giungere a una decisione collegiale, viene scambiato per un debole e perde la stima dei sottoposti. Un capo in Germania è sempre un primus inter pares, ascolta il giudizio dei collaboratori, può cambiare idea senza essere sospettato di indecisione, e deve sempre cercare di convincere i suoi dipendenti del perché abbia compiuto quella tale scelta. Ma quando ha deciso, tutti poi lo seguono lealmente, anche se all’inizio non erano d’accordo con lui».
Sono queste le situazioni sul posto di lavoro che non possono essere spiegate con una statistica.