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 2013  luglio 09 Martedì calendario

IN RICORDO DEL GIORNALISMO DI CHI CONOSCEVA LA SINTASSI

Grande giornalista sportivo, dunque grande giornalista tout court, dal 1976 al 1983 condirettore della Gazzetta dello sport, «vent’anni dentro le stanze del più grande quotidiano» italiano, Gianni de Felice dedica al Corriere della sera un bel libro di ricordi, Corsera sconosciuto (pp. 164, 15,00 euro, pubblicato via Amazon e reperibile sul sito). Del vecchio Corriere, come dei nostri vent’anni, non rimane più niente e de Felice, come tutti noi, un po’ se ne dispera. Sono ricordi, quelli che de Felice mette in bella prosa, che suonano di rimpianto per un’età più fortunata, l’età del giornalismo scritto e pensato, sostituito dal giornalismo dell’età presente, in cui a dominare è il pressapochismo; tempi oscuri, in cui la finanza ha più peso, sull’informazione, di quanta ne abbiano mai avuta «padroni» e boiardi di stato ai tempi dell’economia solida, produttiva. Ciò che sì rimpiange, in realtà, non è tanto un giornalismo più umano e ruspante, il giornalismo di chi conosceva la sintassi e aveva letto, finito il liceo, ancora un libro o due. Quel che si rimpiange davvero, in quest’Italia stremata dalla Grande Crisi, è l’Italia operosa del Grande Boom, come le separa con sconfortata nettezza de Felice.

C’è una differenza epocale (come tra Matteo Renzi e Roosevelt, o tra Churchill e Berlusconi) tra l’Italia che se la passava sempre meglio e quella che se la passa sempre peggio; tra l’Italia della commedia all’italiana e l’Italia dei cinepanettoni; tra l’Italia del Corriere rigoroso e compassato, più attento alle esigenze dei suoi lettori che alle smorfiette dei politici, e l’Italia dei talk show, ai quali persino il Corriere oggi deve mostrare rispetto. De Felice ricorda, con riflessioni da condividere al buio e aneddoti azzeccati, i direttori dei suoi tempi, gli anni Sessanta e Settanta: la fortunata direzione d’Alfio Russo, la direzione bulimica e narcisista di Giovanni Spadolini, la direzione modernista e carismatica di Piero Ottone, quella piduista e marchettara di Franco Di Bella e, quando ormai Gianni de Felice aveva lasciato il Curierùn per la Gazzetta, i fuochi lontani della direzione liberale, finalmente, di Piero Ostellino. Dopo di ché inizia la lunga marcia del paese attraverso gli anni Ottanta: lo scontro tra socialisti e comunisti che riduce la sinistra italiana a quel fantasma che tuttora è, la Milano da Bere, la Caduta del Muro di Berlino, la Morte Secca della Prima Repubblica e Tangentopoli, infine la «discesa in campo» del Cavaliere e dei suoi nemici (e amici immaginari) che divora pian piano il paese come l’ombra delle astronavi aliene che s’allunga sulle città indifese nei film di fantascienza. A de Felice questa particolare Italia piace poco. Diciamo meglio: non piace a nessuno, nemmeno al Pd e al Pdl, che pure l’hanno creata a loro immagine.

A differenza di chiunque ne parli a distanza di quarant’anni, de Felice non s’arruola tra i tifosi, ieri solo di destra, oggi anche di sinistra, d’Indro Montanelli e della sua diaspora, che nel 1974 portò alla fondazione del Giornale, oggi ridotto a Izvestija dei berlusconiani. Nella secessione della Vecchia Guardia Moderata e Anticomunista dal Giornale della Borghesia Lombarda, de Felice vede più che altro un affare di vanità ferite (e lo racconta attraverso gli aneddoti, per esempio quello sull’anno che Montanelli, offeso dalla nomina di Russo alla direzione del Corriere, che a quanto pare voleva per sé, trascorre a Cortina, «senza scrivere una sola riga ma incassando egualmente lo stipendio»). Anche per questo, per le guerre totali tra le grandi firme, per le partite a carte in tipografia, per il fracasso delle rotative, il giornalismo d’antan è da rimpiangere. Sapendo, naturalmente, che tra qualche anno ci sarà qualcuno che rimpiangerà, per ragioni altrettanto fondate, il giornale come si leggeva ai cari vecchi tempi, sull’iPhone o sull’iPad, mentre adesso te lo sparano dritto nella corteccia cerebrale attraverso la retina, quando non te lo iniettano nelle vene o te lo vendono in supposte.