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 2013  luglio 08 Lunedì calendario

“DALLA, PAOLI UN CLARINETTO JAZZ E L’INVIDIA A MILLE”


[PUPI AVATI]

Lei si chiamava Nicola, proprio così, in nome di un nonno morto e molto amato: «Era meravigliosa, non l’avevamo mai vista prima. Quel giorno passeggiava in via Rizzoli, accanto al conte Zucchini, che era alto, bellissimo, tutto il contrario di me. Se non ci fosse stato Cicci Foresti, non avrei mai sperato di poter conoscere quella ragazza. Era uno sfrontato, abituato a fare cose pazzesche, non aveva paura di niente. Inchiodò l’auto, scese, si avvicinò alla coppia, fece un po’ di convenevoli, e dopo poco tornò da me, che ero rimasto fermo in macchina. In mano aveva il biglietto con il numero di telefono di Nicola, la donna con cui sono sposato da 47 anni». Antonio Foresti detto Cicci, racconta Pupi Avati, era l’amico per antonomasia, il Lucignolo che tutte le madri vorrebbero allontanare dai propri figli, l’ispiratore delle imprese più stravaganti, la persona che resta lì per sempre, anche quando la vita separa le strade e sembra che ognuno ne prenda una diversa, lontana: «Cicci ha scoperto il segreto della vita, è andato a stare a Malindi, in una villa sontuosa, viene in Italia quando c’è «Umbria jazz». Non lo vedo quasi mai, però so che se lo chiamassi, anche in questo esatto momento, dicendogli che ho bisogno di lui, sarebbe qui in un attimo».

Quello che conta è il percorso fatto insieme, il periodo irripetibile («superato lo scoglio della scuola, arriva l’università, con quella dilatazione notturna dovuta al fatto che non c’è più l’obbligo della sveglia presto»), le svolte cruciali: «Se ho messo piede per la prima volta su un set lo devo a Foresti, è stato fondamentale anche nel momento in cui sono passato dalla musica al cinema. Conosceva Romano Mussolini, pianista di jazz diventato produttore, mi portò da lui a Roma, fui assunto come assistente e feci il mio primo lavoro, aiuto regista di Piero Vivarelli per Satanik , protagonista l’attrice polacca Magda Konopka».

In quegli stessi anni, più o meno i Sessanta, durante le serate di musica «dove bastava salire su un palco per acquistare incredibile carisma e ottenere dalle ragazze un’attenzione che non avrei mai sognato», Pupi conobbe un giovane musicista. Quello no, non era affatto un amico, anzi, tutto il contrario: «Avevo 22 anni ed ero diventato clarinettista della “Jazz Band”, Foresti era il nostro manager. Una sera andai a sentire un’orchestrina di ragazzi. Ascoltai con tono di sufficienza, alla fine dell’esibizione mi avvicinai a uno dei suonatori, un ragazzetto piccolo, aveva 5 anni meno di me, ma ne dimostrava non più di 15. Mi sembrò negato, gli diedi dei consigli». La verità era un’altra, e venne fuori, dolorosamente, come una pugnalata che lascia una cicatrice indelebile: «In realtà quel ragazzino era un virtuoso, quando suonava era come se gli scendesse sopra lo Spirito Santo, gli altri musicisti lo capirono subito, così ce lo portammo dietro in tournée. Quando faceva gli assolo con il clarinetto, la mia invidia andava a mille, più lo ascoltavo e più soffrivo le pene dell’inferno». Era un «odio vero, che cresceva con il tempo, fino alla sera in cui Gino Paoli venne a sentirci e poi chiamò il ragazzino al suo tavolo, proponendogli di fare un disco e di andare a Sanremo». Sul palcoscenico del Festival canoro più popolare d’Italia, Lucio Dalla fece flop: «Di quell’insuccesso godetti in un modo tremendo...». E chissà come sarebbe andata a finire se, mentre Dalla diventava Dalla, Pupi Avati non avesse scoperto l’altra passione, quella definitiva: «Capii che il cinema poteva essere per me uno strumento di espressione equivalente alla musica. Da quel momento io e Lucio siamo diventati gli amici che avremmo dovuto essere prima, appena ci eravamo conosciuti».

Ogni tanto, di rado, succede che tutto s’intrecci nel modo giusto, che le esistenze prendano un significato preciso, come se niente fosse casuale. Il compagno di bravate Cicci Foresti, quello con cui Avati divideva una piccola garçonierre in centro («la chiamavamo “chez Lulù”»), appassionato di «commesse della Standa, le conosceva tutte, gli piacevano un sacco», continua a vivere una vita lieve, come «priva di responsabilità». Il regista va avanti ricostruendo, di film in film, di successo in successo, un paesaggio dell’anima per sempre segnato dalla memoria della giovinezza. Il musicista diventa star, riempie le platee del mondo, e quando, con gli anni che passano, gli capita di far fatica ad addormentarsi, sa bene chi chiamare di notte: «Lucio era insonne, facevamo lunghe chiacchierate, chiamandoci Pupino e Lucino. Parlavamo dell’età in cui stavamo entrando, un’epoca della vita che andava affrontata con energia. Lui lo sapeva, io lo incoraggiavo, ci raccontavamo bugie, e concludevamo citando una canzone di Frank Sinatra, The best is yet to come ». Il meglio deve ancora arrivare. Lucio, però, non ha avuto il tempo di fare la verifica: «Gli è toccata la fortuna di scappare via prima, senza accorgersene». Un po’ come Nick Novecento, l’attore bolognese morto di infarto a 23 anni, proprio nel momento in cui la carriera sembrava aver preso il verso migliore: «Se ne è andato quando era ancora tutto bellissimo».

Per chi rimane, talvolta, è difficile continuare, ma i ricordi servono anche a questo. Consolano, come gli amici: «Certi giorni, con Cicci, facevamo tutta via Saragozza fermandoci a bere nei bar, uno pagava quelli a destra, l’altro quelli a sinistra. Arrivavamo alla fine che eravamo impresentabili...».