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 2013  luglio 08 Lunedì calendario

AZURIGO CON WAGNER


Chissà come saranno rimasti, nel 1829 alla Scala, quegli spettatori che non avendo letto la presentazione del librettista Felice Romani con tutti i vari Reali di Francia e signori di Pomerania e Merania e Danimarca e Montolino e Bretagna — solo nel finalissimo della Straniera di Bellini possono apprendere che non si tratta di una Alaide bensì di una Agnese. Una Regina, cioè, promessa sposa di un Filippo Augusto. E indubbiamente Edita Gruberova avrebbe fatto meglio a esibirla come primadonna assoluta qualche tempo fa. Per esempio a Firenze, dove Zeffirelli aveva messo in scena una grossa Traviata con Carlos Kleiber e una protagonista esile, così la sera dopo un recital della Gruberova programmava solo arie concertistiche, ma per le bene accette insistenze pubbliche lei eseguì il primo atto verdiano da «È strano!» in poi, quale bis, con tutti quegli stupendi «gioìr!». Così ci si inchina a una cara e grande memoria; e si applaude. Ah, quella sua mirabile Donna Anna alla Scala, tanti anni fa (venticinque?), ai bei tempi di Muti e di Strehler.
Dirige l’eccellente Fabio Luisi. E lo spettacolo dovuto a Christof Loy giustamente appare tradizionale e convenzionale. Con luci di proscenio e cordami pendu-li, coetanei dei «cospetto, soverchio, abborrito, agognata, reo, ria, favella, t’appressa, chi mai sarà». E visuali lacustri come le ville belliniane e comasche. Addirittura una Isoletta, di Montolino (invece di almeno un Isolino, in memoria di Toscanini). Ma forosette e Lucie Mondelle in nero, fra i trasparenti e le palandrane e i vocalizzi virtuosistici. Nessuna pseudo-modernità borghese recente, tuttavia, come nel Macbeth fiorentino e forse un po’ alberghiero secondo Graham Vick.
Ma quanti enigmi e misteri e fervori, intorno alle titubanze o invadenze di questa onnipresente e passionale Straniera. Sempre disperata e inconsolabile, mentre i sofisticati orchestrali dell’Opernhaus eseguono un tipico e ingenuo accompagnamento al Bel Canto o Bel Pianto belliniano. E non per niente, fra tante agitazioni e caccole degli insiemi, volenti o no, il partner tenorile di lei pare un suo coetaneo, grosso e anzianotto e con parrucca spettinata secondo le convenzioni operistiche d’epoca. Veli neri o talvolta corone in testa, impennate un po’ stridule, un quintetto piuttosto incongruo, gioielli e dolori inesausti in una valigia, un manichino sceneggiato, un sapore di «zitti zitti, piano piano» nella partitura, un «empio amor» in un duetto ove sorella e fratello paiono amanti o complici, in qualche incesto o delitto, un po’ di fatica nell’inginocchiarsi... Trionfi!
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Qui, a Zurigo, Richard Wagner abitò per parecchi anni, ospite per lo più dei coniugi Wesendonck. E dunque, in questo centocinquantesimo anniversario, viene commemorato e celebrato con una quantità di iniziative. Mostre e itinerari su Wagner e il jazz, l’antisemitismo, Nietzsche, i bambini, le audio-video-installazioni, Liszt, Thomas Mann, l’Arte Povera, la Comune, i tromboni, gli idilli, le serre... Il principale evento è «Richard Wagner — Wie ich Welt wurde». E come ti divento un Mondo? Sempre in scena, Robert Hunger-Bühler, quale Wagner mingherlino, traffichino, soft. Con la regìa e il testo di Hans Neuenfels, par di tornare all’Ifigenia di Goethe e alla Penthesilea di Kleist quarant’anni fa, allo Schiller-Theater o in una piscina di giovanotti e amazzoni bagnanti. Ma la diva Elisabeth Trissenaar somiglia ormai a un’anziana Anna Proclemer, ha bisogno di sedersi spesso, già cambia parrucche e abiti viola nel doppio ruolo di Cosima Wagner e Mathilde Wesendonck, insomma non potrebbe più fare la bellona in un film di Fassbinder.
Siamo di sabato in un posto di movida estrema, un padiglione ex-industriale molto scrostato e squallido, per piacere ai giovani piccoli borghesi. L’opposto dell’Opera, tutta stucchi dorati e poltrone rosse. In scena, palandrane lucide, mezzi guantini, pantaloni knickerbocker. Alla guida dell’orchestrina, un direttore con coda di cavallo. Impalcature metalliche, sedili non molto comodi. Finestre in fondo, su un anfiteatro di montagne gessose.
Recitazione e collage di brani eseguiti dall’orchestra. Temi sublimi: il Mondo, il Dio, geni universali come Shakespeare e Mozart. Visioni e controversie, con un Baudelaire d’oltretomba e di malaugurio, Gottfried Keller allegro vecchietto zurighese, cantanti professionali eccellenti, danzine di relax su «Ach Du lieber Augustin». Lunghi monologhi. Nona di Beethoven quando vanno d’accordo. Nei momenti di antisemitismo, ebrei caratteristici come nella Salome di Strauss. «Tolleranza, ma posizioni chiare», sentenzia Cosima, dopo una brutta sodomia di lui con un re Ludwig II di Baviera molto ragazzino scombinato in sottovesti femminili sotto gli ermellini di Corte.
Si invocano Isabella di Castiglia e Cristoforo Colombo, gemendo e strillando fra le Rapsodie Ungheresi di Franz Liszt. Otto Wesendonck si avventa in tirate programmaticamente antipatiche. Si scende sovente dal palco, invocando l’America e cingendo pistole da cowboy. Spari, funerali di Sigfrido, morti di Isotta, giudizi favorevoli sul clima di Venezia.
Pause, sospensioni, forse amplificazioni. Meyerbeer, Mendelssohn, Gobineau, Wesendonck-Lieder, Baudelaire e Rimbaud morti e tradotti, Maestri Cantori, applausi.
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In queste congiunture la Villa Wesendonck naturalmente trionfa, anche con applicazioni interattive multiple. Ma quale Museum Rietberg da una settantina d’anni l’illustre magione tardo- neoclassica dei famosi coniugi Otto e Mathilde (e asilo o rifugio o esilio per Wagner) ospita ed espone le collezioni esotiche del barone Eduard von der Heydt, donate con l’edificio medesimo alla città di Zurigo. Così come lo stesso discusso personaggio lasciò al Canton Ticino l’esoterico Monte Verità ad Ascona. Con l’omonimo albergo, nello stile Bauhaus di quell’epoca.
Oggi dunque Wagner, in giro per la villa, troverebbe innanzitutto una processione di Dei e Sovrani stranieri. Una quantità di Buddha seduti e panciuti, Shiva danzanti, copricapi altissimi su gambe cortissime, quadrupedi più o meno sacri in gran numero, soprattutto nei depositi, più che presso qualunque antiquariato o chincaglieria.
«Ars una», proclamava quel ricchissimo barone e banchiere di Wuppertal, comprando Cézanne e Picasso e Munch e Gris e Maillol accanto ai bronzi e alle maschere e agli antenati melanesiani e peruviani, indiani e tibetani, ovviamente cinesi e giapponesi, nonché congolesi, nigeriani, indonesiani, del Camerun, del Burkina Faso, dei Dogon. Per riempire enormi residenze, qui riprodotte: dalle riviere olandesi alla Berlino degli anni folli, alla finale Casa Anatta asconese. Accanto alle maschere demoniache, ecco qui così le carnevalesche svizzere: corna, smorfie, bocche sdentate, nasi puntuti e storti, accanto agli avi della Nuova Zelanda e dell’Alaska.
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«Le Walkirie sopra Zurigo» cavalcano invece al Kunsthaus, in una rapida mostra sugli allestimenti wagneriani qui all’Opera. A partire da un assai schematico Rienzi del 1880. Benvenuto! Poi, con L’Olandese volante, si passa dai brutti modellini del 1929 ai bellissimi trasparenti del 1977. E si trascorre da un banale Tristan del 1933 a un Ring vuoto nel 1929 e pieno di surrealismi nel 1989. Ottimo un Parsifal finale del 1935, già stilizzato e solenne come per Wieland Wagner. Ma la miglior messa in scena, fra quelle esposte, risulta del 1925: un primo atto del Tannhäuser (Venusberg!) in un vivacissimo assortimento di rossi paonazzi in linee curve, di Karl Moos.
Tantissimi sono poi gli “eventi” che celebrano Wagner «nella serra», secondo la dicitura di questo Festival. La mostra principale qui al Kunsthaus, consiste in numerosi «Senza titolo» di Judd, Klein, de Kooning, e molti altri minimali o astratti, dalla collezione Hubert Looser. Ma rientra nel tema di stagione come lo spettacolo di Tristano oppure Isotta?