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 2013  luglio 08 Lunedì calendario

LINGOTTO. ULTIMA FERMATA PRIMA DI WALL STREET

Come dicono in Borsa: compra sulle scommesse, vendi sui fatti. Succede spesso. È successo anche a Fiat Industrial. Su, su, su sino a che la fusione con Cnh era ancora un work in progress. Giù, rispetto ai massimi di 9,80 euro toccati a fine gennaio, mano a mano che arrivavano prospetti, autorizzazioni, convocazioni di assemblea.
Il percorso
Adesso, complice pure un primo trimestre 2013 inferiore alle attese, siamo attorno a quota 8,60. Adesso, però, siamo anche alla parte conclusiva del processo di merger. Domani gli azionisti di Industrial si vedranno per l’«ultima volta» al Lingotto: convocati per dare il via libera (scontato) all’incorporazione e dunque l’addio alla vecchia (ma non troppo) struttura societaria. Poi, tra un paio di settimane, toccherà agli americani (per passaporto industrial-borsistico, visto che la quasi totalità delle azioni è invece da anni di proprietà torinese). E a quel punto, completato il cerchio con l’ok di Case New Holland, sarà fatta: mancheranno solo i passaggi e i tempi tecnici perché il «nuovo» gruppo, che nel frattempo cancellerà Fiat dalla ragione sociale per diventare Cnh Industrial, parta, approdi alla quotazione a Wall Street, mantenga a Piazza Affari una presenza di fatto solo di bandiera.
Nell’economia globale va così. Una certa Italia borsistica può lamentarsene, perché perde uno dei propri emblemi manifatturieri e tecnologici e sa, oltretutto, che questo non è che un antipasto: prova generale in grande stile di quanto, nel giro di un anno (al massimo), Sergio Marchionne e John Elkann replicheranno con «il» simbolo per eccellenza. Ossia l’auto. Ossia Fiat-Chrysler. Ma una certa Italia, non solo borsistica, dovrebbe allora — o prima ancora — lamentarsi delle cause e fare una volta per tutte qualcosa per rimuoverle.
Non lo dicono apertamente, per ovvie ragioni, ma sono in molti i capitani d’industria (anche quotati, anche dell’FtseMib) che l’idea di seguire la stessa strada l’hanno in testa. E dunque: stupirsi del fatto che un gruppo globale cerchi anche nei canali di finanziamento mercati globali — e più efficienti, e meno costosi, e meno sottoposti alla tassa occulta del «fattore Paese» — serve alla fine a tener vivi solo polemiche e convegni. Ben poco d’altro. E l’«altro», qui, non è certamente roba da poco. Parlare di camion, trattori, macchine per le costruzioni non sarà «sexy» quanto dibattere di auto. Ma camion, trattori, macchine per le costruzioni sul lato business non stanno di sicuro su un piano inferiore. Al contrario. Guardate le capitalizzazioni di Borsa. Fiat Industrial: 10,5 miliardi (ed è infatti la prima partecipazione di Exor). Fiat Spa: attorno ai 6,8.
Domani, in assemblea, tutto questo Marchionne probabilmente lo ricorderà. Il gruppo che da adesso in avanti si chiamerà Cnh Industrial, e che rispetto a ora non sarà rappresentato solo da un’unica società ma anche da un unico titolo, è già un top player globale nel settore dei cosiddetti capital goods.
I numeri
Il gruppo produce ricavi per 25,8 miliardi, fa utili netti per quasi uno, a fine marzo aveva 2,5 miliardi di debiti industriali e 5,1 di liquidità disponibile. Ha 64 stabilimenti nel mondo (14 in Italia, il resto diviso in modo equilibrato tra Europa, Americhe, Asia). Dà lavoro a 68 mila dipendenti (un quinto nel nostro Paese). Ha in totale 49 centri di ricerca (dieci da noi).
È vero, nel primo trimestre 2013 l’attività è un po’ rallentata (per tutti), l’indebitamento è leggermente salito (effetto anche dei nuovi investimenti), la liquidità è scesa in parallelo (ma rimane elevata). Anche questo ha contribuito alla frenata del titolo in Borsa. E tuttavia la carta d’identità global di Industrial conferma che il gruppo è uno dei leader mondiali nei mezzi pesanti e relativa motoristica: terzo in assoluto dietro Caterpillar e Volvo, primo nelle macchine da costruzioni, secondo in quelle per l’agricoltura, terzo nei veicoli industriali. È top player in Brasile e ben posizionato per un’ulteriore crescita in Russia, India, Cina (dove Iveco fa la parte del leone). I «Bric» staranno anche cominciando a pagare la crisi da crescita, i loro modelli di sviluppo staranno entrando in crisi, i nodi che hanno accumulato negli anni staranno venendo al pettine. Ma il loro rallentamento significa comunque tassi di crescita che l’Europa, e in misura minore il Nord America, possono ancora soltanto sognare.
Dopodiché, certo: messa così, a elenco di numeri e dati, la fotografia dell’«altro Lingotto» fa un po’ «catalogo». O statistiche che dicono tutto e niente. Può interpretarle e rendere l’idea, allora, la pagella che Deutsche Bank ha compilato in un’analisi in cui, un paio di mesi fa, alzava da hold a buy, dunque da «tenere» a «comprare», il giudizio su Industrial. «Consigliata» ai suoi clienti per questa ragione, intanto: «È uno dei pochi player di valore nel settore». E, con la fusione e la quotazione a Wall Street, «sarà ancora più attraente e trasparente». Con buona pace di Piazza Affari e del nazionalismo a corrente alternata. Con legittimo orgoglio di Marchionne & Elkann. Pronti alla più impegnativa — e difficile da far digerire — «emigrazione» Fiat-Chrysler.
Raffaella Polato