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 2013  luglio 06 Sabato calendario

TROPPE E INUTILI? VENT’ANNI DI “RIFLESSIONI” PER LO SQUILLO ANTI-CASTA


«L’ argomento è di grande interesse, ma merita una riflessione ulteriore», disse Cesare Salvi del Pds il 19 ottobre del 1993. Siamo a vent’anni dopo e i supplementi di riflessione sono ancora di gran moda. Si doveva riflettere - e si rifletterà per i due decenni successivi - sull’abolizione delle province che nell’occasione era stata proposta dal costituzionalista (pure pidiessino) Augusto Barbera, membro di una delle tante bicamerali che periodicamente dovrebbero mettere mano al vecchiume istituzionale, e regolarmente falliscono. Quella bicamerale, presieduta prima da Ciriaco De Mita e poi da Nilde Jotti, sarebbe stata spazzata via dalla fine della Prima repubblica, ma pose l’inedita questione dell’inutilità - o manifesta sovrabbondanza - delle province. In precedenza, per esempio con la commissione bicamerale Bozzi (1983-85), si era giusto pensato di adeguarne le competenze ridotte alla manutenzione di strade (provinciali) ed edifici scolastici.

Ora la partita è di tutt’altro genere, è diventata simbolica, come vien fuori dalla parole spese ieri da Antonio Saitta, il presidente dell’Unione delle province: «Ma davvero il governo pensa di conquistare la fiducia degli italiani cancellando centocinquant’anni di storia?». Sì, è così. L’abolizione delle province si è trasformata in una questione di principio più che di sostanza, un match nel quale si fronteggia chi sulla provincia ci campa, e si aggrappa ai conti e ai manuali, e chi deve dare un segno di risolutezza anticasta, e si getta sulla soluzione meno dolorosa (sebbene con i risultati che si vedono). Dopo la parentesi del 1993, si tornò a discutere di abolizione delle provincie nel 1998 (bicamerale D’Alema), ma figurarsi: la riforma di centrosinistra del titolo V della Costituzione (2001) finì col rafforzare la caratura costituzionale degli enti. Insomma, si potrebbe andare avanti per delle pagine, e si noterebbe che il dibattito prese una piega ben chiara nel 2006, quando Cesare Salvi (tredici anni dopo quella richiesta di «riflessione ulteriore») si era ormai convinto della necessità di sacrificare gli enti provinciali poiché hanno «una identità debole e un ruolo evanescente, pienamente percepiti come tali dai cittadini, mentre la perdurante spinta alla istituzione di nuove province esprime essenzialmente la spinta di una pratica politica localistica e clientelare». Ecco, lo spreco evolveva a spreco percepito: lo squillo dell’anticasta.

In effetti, nel decennio scorso, durante il quale il taglio in questione veniva ridiscusso ogni sei mesi, continuavano a spuntare province nuove di cui molti, oggi, nemmeno sospettano l’esistenza: Ogliastra, Bat, Medio Campidano... Siamo arrivati a centodieci province quando alla loro istituzione, con l’Unità d’Italia (1861), erano cinquantanove e sarebbero diventate soltanto dieci di più nel 1870, con la presa di Roma e la quasi totale definizione dei confini. E oggi serve a poco sostenere, come ha fatto il presidente della provincia di Latina, Armando Cusani, che le amministrazioni di cui lui fa parte costano l’1,26 per cento della spesa totale, mentre le Regioni sono intorno al venti: è che alle Regioni competono poteri solidi e costosi come la sanità. Serve a poco perché, anche se si tratta di cifre esigue, ormai si va avanti di tigna.

Dal gran discutere si è passati al gran lavorìo, anche un po’ furbino, culminato nel 2011 con la strombazzata riforma messa sul tavolo da un centrodestra con l’acqua alla gola. Pochi giorni prima di Ferragosto si decise di inserire nel decreto anti-crisi il taglio delle Province studiato dal ministro competente, Roberto Calderoli; ma fra restrizioni, eccezioni e deroghe varie, si finiva col tagliare forse quindici province e non se ne fece nulla. Tutto rinviato a una «riflessione ulteriore» che doveva culminare in una più ampia riforma costituzionale.

Non c’è pasticca più duttile dell’abolizione delle province: la si prescrive a ogni giro, per curare ogni malore. E altrettanto regolarmente parte la geremiade di chi non ci sta, in un’assurda sfida fra chi vorrebbe cambiare qualcosa di modo che nulla cambi e chi, già che non si vuol cambiare nulla, davvero nulla si cambi. Ed è questa, alla fine, la parabola emblematica del paese che non è capace di imbastire non si dica una riforma, ma un ritocco.