Walter Siti, la Stampa 6/7/2013, 6 luglio 2013
“VI RACCONTO LA MIA NOTTE DA STREGA”
Accade ogni tanto, se si deve fare un viaggio o una gita, di consultare le previsioni del tempo la sera prima: una depressione sui Balcani minaccia piogge a partire dal pomeriggio, mentre l’anticiclone delle Azzorre tarda ad avanzare e persistono vaste aree temporalesche nelle zone interne.
Poi la mattina si parte ed è semplicemente una bella giornata, ed è una bella giornata perché è estate, stop. Più o meno quel che mi è successo passando dalle previsioni della vigilia, perturbate da ipotesi complottarde, alla serata finale dello Strega: le persone che stimavano il mio libro lo hanno votato e sono state in numero sufficiente per far sì che il libro vincesse. Rischio di sembrare Alice nel Paese delle Meraviglie, me ne rendo conto, ma tutto si è svolto ai miei occhi con una semplicità disarmante – o forse le mosse e contromosse si sono equivalse al punto da lasciare le cose com’erano all’inizio.
All’inizio c’era il mio trentennale lavoro, con la stima che pian piano aveva raccolto intorno a sé: forse ogni premio dovrebbe considerare unicamente il libro che viene presentato, ma ho l’idea (o forse l’illusione) che il Premio Strega sia stato per me anche un implicito premio alla carriera, con quel tanto di armoniche pre-serali, per non dire funebri, che cercherò in ogni modo di scongiurare. «La maturità è tutto», diceva Shakespeare, ma quando un frutto è maturo è pronto a cadere e Cesare Pavese lo sapeva. Per questo il primo moto psichico vero, finito lo stordimento, è stato il desiderio di tornare a casa e riprendere il lavoro nuovo che ho nel computer. Che anche questo premio gli faccia da concime, e andiamo avanti.
Non ero mai stato a Villa Giulia per la cerimonia del Premio, né mai la avevo vista in televisione: per questo prima della serata finale ero curiosissimo, finalmente potrò vederla in diretta. Invece mi è successo, piccolo parodistico imitatore, quel che accadde a Fabrizio del Dongo alla battaglia di Waterloo secondo la Certosa di Stendhal: sono entrato nell’emiciclo bianco abbagliante, mi hanno messo in pose ridicole insieme agli altri della Cinquina, ho risposto a troppe domande senza capire quel che dicevo. Mi si favoleggiava di dame vestite da Nefertiti sgomitanti al buffet, di insulti sibilati tra un tavolo e l’altro delle case editrici; invece il buffet era piuttosto largo e non c’era folla, le mises erano complessivamente sobrie tranne qualche eroica eccezione. Ho abbracciato, ho baciato, ho stretto mani, poi cominciava la conta e ho preferito rifugiarmi su una panchina in fondo al parco dove i nomi chiamati non arrivavano; mi hanno prelevato da lì quando ormai era fatta e la diretta televisiva era in corso. Ma anche di quella non ho visto niente, da sotto le parole di quelli sul palco non si sentivano; poi una volta salito io ho sperimentato l’effetto straniante di parlare a una platea che non udiva quel che dicevo e quindi se ne fregava interessandosi ad altro. Non riuscivo a indovinare come stesse risultando la stessa scena in video. Il solo momento in cui mi sono visto, chiaramente, da fuori è stato quando non riuscivo a stappare la bottiglia di liquore – ho avuto la netta percezione di star facendo la figura dell’imbranato.