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 2013  luglio 05 Venerdì calendario

A SCUOLA DI CULTURA DA CAMERON

Le incredibili vicende sindacali che hanno bloccato alcune tra le mete turistiche più importanti e care ai visitatori internazionali ci hanno forse distratto da quanto è stato annunciato pochi giorni fa in Gran Bretagna, a proposito di gestione dei beni culturali. L’ultima spending review effettuata dal governo Cameron, infatti, non è andata leggera col settore della cultura, tagliando complessivamente del 7% il bilancio, con una riduzione al 5% per il finanziamento dell’Arts Council England e dei musei (ma salvaguardando, come è stato annunciato con orgoglio, il milione di sterline necessario per contribuire ai restauri del campo di battaglia di Waterloo in vista del bicentenario della battaglia). Paradossalmente, il risultato ha fatto tirare un respiro di sollievo agli interessati e agli operatori, a partire dal ministro della Cultura, Maria Miller, minacciata all’inizio di tagli ben più consistenti.
Queste riduzioni si aggiungono a quelle del 10% previste nei trasferimenti agli enti locali, che naturalmente riverberanno i propri effetti anche sui servizi culturali; e a quelle effettuate negli anni precedenti, che hanno per esempio visto ridurre il finanziamento ad Arts Council England (che finanzia 696 istituzioni culturali nel Paese) del 30% nel 2010 e poi di altre piccole quote successive: con la conseguenza di aver costretto l’istituzione a ridurre della metà i propri costi amministrativi.
Riflessioni per l’Italia? La prima, generale, è l’attenzione riservata, nonostante tutto, al settore culturale, che ha sofferto meno di altri, in riconoscimento alle funzioni svolte. E su questo vale la garanzia, già espressa dal premier Enrico Letta, di non procedere con ulteriori tagli ai settori della cultura e dell’istruzione.
Ma la considerazione più interessante riguarda il futuro: nei piani del governo inglese, infatti, i tagli sono accompagnati dalla previsione di attribuire una maggiore autonomia economica e finanziaria ai musei che dovranno dimostrarsi capaci di far da sé nel reperire risorse ulteriori, e che dovranno contare sulla libertà d’iniziativa necessaria.
Il Governo ha esplicitamente legato i tagli alla concessione di questa maggiore autonomia che, secondo i puristi, potrebbe estendersi al punto da mettere in discussione uno dei punti fermi della politica culturale britannica, ossia la gratuità dell’ingresso in molti musei: essa verrà certo minacciata dall’entità dei tagli e dall’esigenza di sostituire le risorse pubbliche, soprattutto a livello locale, più toccato dalla scure alla spesa pubblica. Insomma, la prospettiva è quella di violare un tabù delle politiche sociali britanniche, il che la dice lunga sulla profondità delle trasformazioni in atto nel settore culturale.
Se si pensa che, pochi anni fa, all’epoca dei primi tagli a Londra, la scelta conseguente era stata quella non di ridurre i contributi al mondo dello spettacolo in misura proporzionalmente eguale per tutti i soggetti, ma di selezionare dove tagliare e dove, eventualmente, addirittura, investire di più, si coglie il senso di una trasformazione epocale che sta sovvertendo le modalità tradizionali di fare politica culturale in Gran Bretagna. Un recente servizio sull’Economist, tra l’altro, rimetteva in discussione molti dei capisaldi sui quali si giustifica l’intervento pubblico nella cultura, concludendo che "la verità è che il valore economico dell’arte è spesso difficile da quantificare, assieme ai suoi benefici sociali o estetici. E questo la rende vulnerabile ai tagli in tempi difficili".
La cultura, insomma, va difesa innanzi tutto per quello che (certamente) è, non per quello che (presumibilmente) rende. E allora deve attrezzarsi per inventare nuovi pubblici, offrire nuovi servizi, democratizzare l’accesso a chi, nonostante la profusione di soldi pubblici negli ultimi decenni, continua a non consumarla. Tutto questo implica un ripensamento profondo nelle politiche pubbliche, e nell’approccio degli operatori. È positivo che nel recente "decreto del fare" compaia qualche segno di voler concedere maggiore autonomia gestionale anche ai musei pubblici italiani, oggi paralizzati da norme contabili e amministrative che sembrano fatte apposta per disincentivare dalla ricerca di risorse proprie; sottolineando che quest’ultima attività non dovrà ridursi alla caccia a "sponsor" sempre più esausti, anche di avere a che fare con la realtà spesso pazzotica delle nostre istituzioni pubbliche, ma di inventare nuovi rapporti e capacità di interlocuzione con le comunità di riferimento.