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 2013  luglio 06 Sabato calendario

DAVID GROSSMAN “HO SPOSATO MIA MOGLIE GRAZIE A UN RACCONTO”

GERUSALEMME L’appuntamento è a due passi dalle mura della Città Vecchia, all’Ymca, quel monumentale palazzo in stile neobizantino disegnato per il Mandato Britannico nel 1933 da Arthur Loomis Harmon, l’architetto dell’Empire State Building, una sorta di inno in pietra bianca punteggiato di ceramiche colorate, piante e simboli spirituali. I patti sono chiari, David Grossman, che arriva a passo veloce e leggero come il suo sorriso, i modi gentili, la sua dolcezza, non vuole parlare né di politica, né di Uri, il figlio minore ucciso nella guerra in Libano del 2006, il cuneo doloroso onnipresente che ha investito, plasmato di sé tutta la sua ultima produzione letteraria. Di che parliamo allora? Di libri, di che altro, di scrittura, un tema che lo trasforma subito in un meraviglioso cantastorie e gli anima la voce e gli occhi di gioia pura. Domani Grossman sarà a Barolo, ospite di "Collisioni".

Da bambino era un grande lettore? «Avevo una vita interiore tempestosa che non riuscivo a incanalare da nessuna parte, soffrivo sommerso da paure e sogni e leggere divenne una strada maestra. Nei libri trovavo un mio posto. Allora nella biblioteca di quartiere c’era un’impiegata che odiava i bambini: eravamo troppo rumorosi, disordinati, e lei si comportava come un drago di guardia a un tesoro. Man mano però divenne più tollerante con questo ragazzino dai capelli rossi che leggeva così tanto, mi permise perfino di prendere tre libri a settimana, cosa proibitissima. Il massimo era uno, ma io me lo divoravo in poche ore. Comunque fui fortunatissimo. Mio padre faceva l’autista di autobus, ma, a un certo punto, per motivi di salute, smise di guidare e lo misero a dirigere la biblioteca della compagnia dei trasporti di allora. Fu come vincere alla lotteria: lui mi usava come un consulente, e quel luogo divenne quasi la mia libreria personale!». Si appassionò ai racconti di Sholem Aleichem. «Esatto. Quello scrittore descriveva la vita degli ebrei nell’Europa dell’Est all’inizio del ’900, e mio padre, arrivato in Israele a 9 anni dallo shtetl di Dynow, in Galizia, non mi aveva mai parlato del modo in cui vivevano lassù. Un giorno mi dette un libro di Aleichem dicendomi: "Leggilo, questo era il mio mondo". Fu fantastico. Sì, era una realtà terribile, ma io non ne sapevo nulla, ero un ragazzino nato nel neonato Israele degli anni ’50, volevo solo diventare un paracadutista, un giocatore di football magari. Eravamo orgogliosi di noi stessi e ignari della diaspora, l’esistenza dei non ebrei ci era più o meno ignota. Sprofondai nella lettura di Aleichem. Una volta poi, a una cerimonia commemorativa della Shoah per gli allievi delle elementari, sotto un sole cocente, a Bet haKerem, mentre gli oratori non sapevano bene cosa dire per comunicarci la catastrofe, lo sterminio di 6 milioni di ebrei, a un tratto mi apparve chiaro che quella gente uccisa era la mia gente, ed anche quella di Sholem Aleichem».

Quando ha capito che "aveva bisogno di scrivere"? «Già all’asilo, quando la maestra era impicciata, mi metteva a raccontare delle storie ai miei compagni. La cosa stupefacente era che mi ascoltassero. Poco più tardi, appena mia madre lasciava la macchina da scrivere, io ci infilavo subito un foglio e iniziavo a battere i tasti. Però ricordo bene la volta in cui seppi fisicamente non che volevo fare lo scrittore, ma che avrei scritto. Vivevo con la mia ragazza a Nachlaot, vicino al mercato, e litigammo: lei tornò dai genitori a Haifa. Ero devastato, mi dicevo che se quella donna non mi amava non lo avrebbe fatto nessun altra. Mi rammento che andai al nostro piccolo tavolo e iniziai a scrivere a mano un racconto. Non so come... di fatto mi usciva da dentro. Parlava di asini,e quando lo finii lo misi in una busta per lei (in Italia è uscito nella raccolta L’uomo che corre )... che tornò, ed è tutt’ora mia moglie».

E quando ha deciso che scrivere sarebbe stato il suo mestiere? «Anche qui c’è un momento preciso che ricordo.

Laureato in teatro e filosofia, avrei dovuto dirigere un corso di letteratura comparata. Un giorno, mentre pulivo per terra col mocio la nostra casa di Kiryat Yovel, capii che non volevo studiare letteratura, ma farla, scriverla. Mi fermai col bastone in mano e lo dissi a mia moglie. Lei mi sorrise scettica, e fu quello sguardo dubbioso a sfidarmi: dovevo provarle che l’avrei fatto sul serio».

Come sceglie un plot? Decide tutto prima? «Ogni volta è diverso.

Magari inizio da un aneddoto che mi sono appuntato 30 anni fa: quando qualcosa mi colpisce, l’annoto da qualche parte, anche sul palmo di una mano. Se succede di notte, la mattina magari non riesco più a leggerlo».

Mi faccia un esempio.

«Mi viene in mente una volta che ero in volo per Londra: sugli aerei dell’El Al non so perché c’è sempre una coda davanti alle toilette: tra gli altri passeggeri notai una donna che si stringeva le braccia e aveva un sorriso molto intimo; si era come isolata, stava dentro di sé. Avrei dato tutto per carpire il suo segreto, ma non mi restava che inventarlo.E fu l’idea iniziale per Che tu sia per me il coltello».

Mentre scriveva quel romanzo a un certo punto lo cambiò completamente. Lo fa spesso? «Sempre, finché non va in stampa. Un libro si rifiuta di essere congelato. Se la storia, i personaggi, sono autentici, vogliono svilupparsi, rivelare altro e io amo rispondere alla loro vitalità. Con Che tu sia per me il coltello, a pochi giorni dall’uscita, una notte saltai giù dal letto: mi era apparso chiaro che il problema dei romanzi epistolari è la presenza di ambedue i lati della corrispondenza: volevo invece che il lettore avesse a disposizione una sola chiave e creasse da solo l’altra, che scrivesse la storia con me: decisi in un batter d’occhio di buttare via tutte le lettere della donna, 200 pagine vive, amate, e sentii che il romanzo volava. Del resto i libri che preferisco sono quelli con un finale aperto». Dunque non decide la fine molto prima.

«Mai, mi rifiuto, sarebbe noiosissimo. La fine mi arriva molto in là, la sento».

A volte, leggendola, sembra di ascoltare una seduta psicoanalitica.

«No, io ho a che fare con la vita dell’anima, racconto una storia. Uno psicoanalista cerca di salvare un paziente che affoga; io non curoi miei personaggi, al contrario porto all’estremo la loro vita emotiva, annego con loro».

Mentre scrive soffre, è felice, calmo? «Mai calmo, patisco e sono contento al tempo stesso. Sento che è un tale privilegio avere a che fare con un materiale così significativo, capace di dirmi tante cose della mia vita, del paese in cui vivo, cose che nessun’altra persona, e nemmeno i sogni, potrebbero mai darti. Solo l’arte ci riesce». Come fa a diventare una donna? «Cerco in tutto di sentirmi come lei, e ormai penso che in ognuno ci siano tante presenze, opzioni che scartiamo, di genere, carattere, linguaggio, educazione politica... quando scrivo posso essere una donna, un vecchio, un bambino, un cane, un palestinese che guarda Israele come un nemico.

Vengo invaso, ed è fantastico, perché normalmente siamo così protetti dagli altri. Uno scrittore vuole essere penetrato, posseduto. È una condizione eccitante, piena di vita. Il mondo diventa per me come un negozio di giocattoli».

È la libertà assoluta.

«Fino a un certo punto, perché poi la storia, i personaggi, prendono il sopravvento, e vanno oltre i tuoi stessi limiti, le tue inibizioni. Con Yair in Che tu sia per me il coltello ad esempio, mi sembrava di stare sopra un cavallo selvaggio in un rodeo, e con la protagonista Ora di A un cerbiatto somiglia il mio amore invece ho imparato come lei facesse fronte alla paura di perdere il figlio in guerra. Ora mi ha permesso anche di ricordare tutti i dettagli dei miei figli Uri e Jonathan da piccoli. Solo in Caduto fuori dal tempo sono uscito dal dolore, dal lutto, e ho raggiunto l’ultima linea dove i vivi possono toccare i morti». Cosa significa scrivere in un luogo al centro del conflitto? «In un paese sempre in guerra, dove tutto quindi diventa necessariamente nazione, popolo, è più difficile essere un individuo, capire chi sei. Scrivere ti aiuta a farlo.

Verrebbe voglia di scappare da questa responsabilità, ma la vita è tanto breve che sarebbe un’ingiustizia terribile».

Perché in questa intervista non ha voluto parlare di politica? «Perché tutto ormai mi sembra un cliché ripetitivo. Noi, loro, i nostri leader che fanno sempre gli stessi errori. Mi sembra di aver già vissuto ogni cosa. E ho detto molto in A un cerbiatto somiglia il mio amore quando ho descritto questa brava gente intrappolata in una situazione tanto abnorme».

Scrivere in ebraico per lei cosa significa? «In molte frasi attuali c’è l’eco dei millenni, della Bibbia. È un onore straordinario far parte di questa eccezionale catena di pensatori e scrittori. A volte invento anche delle parole, perché per secolii bambini non si sono divertiti parlando questa lingua, e i mercanti non hanno fatto affari, né gli amanti hanno dichiarato il loro amore usando la nostra lingua. Forse con tutte le sue ch, kh e rrrr può sembrare pesante, ma l’ebraico, se lo conosci, è davvero erotico e giocoso».