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 2013  luglio 05 Venerdì calendario

DA STAR AL RISO SCOTTI I NOSTRI MAECHI DOC FANNO GOLA ALL’ESTERO

Ci sono marchi e prodotti che, un po’ come i monumenti, sono simbolo di un Paese. Ne raccontano la storia, ne defini­scono l’identità, la rappresenta­no all’estero. Eppure, in Italia, dove il cibo (assieme alla mo­da) è da sempre il biglietto da vi­sita verso il resto del mondo, molti grossi brand del settore agroalimentare sono volati via. Smembrati, ceduti, comprati da multinazionali con sede a pa­recchi chilometri dal Bel Paese.
Con una perdita, in termini di fatturato, pari a dieci miliardi di euro dall’inizio della crisi. Lo ha denunciato ieri il presidente di Coldiretti Sergio Marini, du­rante l’Assemblea nazionale. Dove, per l’occasione, era stato provocatoriamente allestito uno scaffale con i prodotti «del Made in Italy che non c’è più».
Il caso più recente è quello della Pasticceria Confetteria Cova di via Montenapoleone a Milano, che adesso parla fran­cese: è stata acquistata dal gi­gante del lusso Louis Vuitton Moet Hennessy. Un passaggio di proprietà ha fatto discutere gli abitanti del capoluogo lombardo, molto affezionati allo storico negozio. Andando in­dietro nel tempo le cessioni, dal 2008 ad oggi, toccano molti no­mi storici. Dal riso Scotti, di cui il colosso spagnolo Ebro Foods ha conquistato il 25 per cento, alla Star, passata nel 2012 sem­pre in mano iberica, al gruppo Agroalimen di Barcellona. Dal­l’Orzo Bimbo, venduto nel 2009 alla francese Nutrition& Santè del gruppo Novartis, al­l’olio Bertolli, un anno prima venduto alla Unilever e poi pas­sato alla spagnola SOS.
Non va meglio nei comparti dei salumi e dei formaggi. Due anni fa la Fiorucci è stata venduta an­cora una volta a una socie­tà spagnola, la Campofrio Food Group. Mentre nel 2010 il 27 per cento dello storico gruppo caseario Ferrari, fondato nel 1823 e che produce, tra le altre cose, Parmiggiano reggiano e Grana Padano, è finito nelle ma­ni della francese Bongrain Eu­rope. Le forme di grana per ora sono salve, certo è che i marchi di eccellenza della Penisola fan­no gola anche a gruppi che con si sono sem­pre occupati di altro. Come nel caso dei vi­ni. Di recente un imprendi­tore della far­maceutica di Hong Kong ha acquistato un’azienda vi­tiviniciola nel Chianti, nel cuore della produzione Docg del Gal­lo Nero. Del re­sto nel 2011 la storica casa di spumante Gan­cia è diventata per il settanta per cento di proprietà dell’oli­garca Rustam Tariko, banchie­re e proprietario della vodka Russki Standard. E un anno fa la Princes, società controllata dalla giapponese Mitsubishi,si è fusa (mantenendone il controllo) con la AR Industrie Ali­mentari, che produce pelati.
Il motivo di questo «assalto» ai brand italiani? Semplice, con­viene: se i consumi interni sono in crisi, l’export sta benissimo, e i colossi stranieri hanno fiuta­to l’affare. Il problema, sottolineato da Marini, è però che lo shopping dall’estero sulle aziende italiane porta con sé uno «svuotamento finanziario delle società acquisite, delocalizzazione della produzione, chiusura di stabilimenti e perdita di occupazione». Con buona pace del legame con il territorio, con un ecosistema e delle materie prime che costituisco­no la quintessenza di un prodot­to di qualità.
Ma non per tutti questa «cor­sa all’acquisto italiano» è solo una brutta notizia. Giancarlo Aneri, da una vita alla guida del­l’omonima azienda di vini pre­giatissimi, spiega ad esempio che «se un cinese comincia a produrre Chianti addomestica­to per andare incontro ai gusti dei suoi connazionali, questo è inaccettabile perché mina la qualità del Made in Italy. Ma se l’acquisizione straniera è fatta per portare avanti la tradizione del vino italiano, allora va bene».