Anais Ginori, la Repubblica 6/7/2013, 6 luglio 2013
“MANDELA, TOTEM DELL’AFRICA ECCO PERCHÉ IL SUO CORPO ORA È DIVENTATO UN SIMBOLO”
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
PARIGI — «È una questione delicata e fondamentale che mi sono posto altre volte, pensando anche a ciò che vorrei per me stesso». Nonostante il suo distacco accademico, lo storico francese Jacques Le Goff non riesce a guardare con freddezza la lite, privata e pubblica, intorno al corpo di Nelson Mandela. Il leader sudafricano novantunenne, ricoverato in ospedale, sarebbe ormai “in stato vegetativo” secondo alcuni medici, ma i famigliari non sono d’accordo tra loro sull’ipotesi di lasciarlo morire. Per Le Goff, che da noto medievalista ha studiato la simbologia del corpo di re e sovrani, c’è un momento in cui l’egoismo dei parenti, e in questo caso di una nazione, deve «fare un passo indietro, rispettando il destino individuale».
Anche se Mandela rappresenta una sorta di “santo laico”, che ha affrontato pacificamente la lotta al regime dell’Apartheid, unificando poi il paese?
«La sacralità del corpo è sempre esistita prima con i sovrani e poi, seppur in misura molto minore, con alcuni grandi leader. Io non sono credente, ma c’è una cosa che trovo molto giusta nel rito cristiano. Durante le esequie, anche in messe celebrate nel modo più semplice, la bara è benedetta da tutti con l’incensiere. Dal clero, dai laici e dalla famiglia. È il segnale del rispetto del corpo che appartiene alla nostra cultura, al di là del fatto religioso».
Nel caso del leader sudafricano, oltre al dilemma etico, religioso, rischiano di sommarsi considerazioni politiche?
«Come sempre quando si parla di questioni fondamentali della vita, la nascita o la morte, non si può ragionare solo per se stessi: occorre pensare anche in funzione degli altri. Il corpo di Mandela in qualche modo non gli appartiene già più. Il cristianesimo sostiene che bisogna rimettere l’anima nelle mani di Dio. Io preferisco parlare di memoria consegnata alla collettività. È questo che rimarrà sempre».
Sarebbe dunque giusto interrompere i trattamenti medici?
«È una domanda molto difficile, sulla quale ho riflettuto più volte. Alla fine mi sono convinto che sia giusto mantenere in vita una persona finché è possibile, ma non al di là di una scadenza fissata dal malato, se è cosciente, dalla famiglia vicina — e sul grado di parentela si potrebbe discutere — e infine dai medici. Ci dovrebbe essere una forma di consenso tra tutte queste parti. Se invece il malato soffre e non è cosciente il mio auspicio è non aumentare o allungare la sua sofferenza fisica. Nel caso di Mandela, non esistono le condizioni che ho citato. Da quel che si sa, non soffre e non ha lasciato disposizioni in anticipo. Inoltre, medici e famigliari non sono d’accordo su cosa decidere».
Ma è possibile trovare un consenso su una questione del genere che, oltretutto, riguarda un eroe nazionale come Madiba?
«Io sono per un inquadramento giuridico del fine vita laddove sia possibile. Non conosco le leggi in Sudafrica. Poi ci deve essere una valutazione caso per caso. Su Mandela il dilemma diventa altamente simbolico: investe la sfera pubblica anche se non dovrebbe. C’è una sacralità del suo corpo, come in altri tempi, è accaduto con re e santi. Mandela ha un corpo privato e uno pubblico. In questa situazione le due dimensioni sono riunite ed è evidentemente difficile fare la differenza. Mi auguro che alla fine ci sia un accordo per lasciare andare l’uomo, comprendendo che il leader, l’eroe nazionale tanto amato, resterà sempre. Con la sua anima o la sua memoria, ognuno dica come crede».