Francesco Merlo, la Repubblica 6/7/2013, 6 luglio 2013
SOUVENIR CITY QUELLA STRADA CHE UNISCE IL MONDO GLOBALE
ERI mattina, dietro il Pantheon, ho comprato una spilletta rotonda antiambientalista e volgare che avevo già comprato nell’Arndale Center, a Market Street, a Manchester. “Go Green!” c’è scritto in verde. E sotto, più piccolo e in rosso: “Fuck a vegetarian”. Ed è stato un lampo di pochi secondi, lo stesso che mi ha stordito quando ho visto in vetrina l’abito rosso che avevo acquistato per mia figlia in Oxford Street, a Londra. Anche il negozio era lo stesso: Zara. Sono scappato via per paura di incontrare la stessa commessa.
Un malore più forte, non un’intermittenza ma un ristagno del cuore, l’avevo provato quando avevo ritrovato su una bancarella di via Cerretani a Firenze una maglietta di cui vado (andavo) molto fiero e che avevo comprato in rue de Passy a Parigi. La maglietta è nera e ci sono in bianco tre citazioni sul fare e sull’essere. Eccole di seguito. “To do is to be (Nietzsche)”. “To be is to do (Kant)”. “Do be do be do” (Sinatra). Il marchio è “Fanshirt”. La fabbricazione? Thailandia.
PENSAVO che fosse la genialità di un artigiano delle magliette e non un luogo comune della città generica. Insomma ci sono rimasto male perché ho scoperto che era uno dei tanti “fast- shirt” della maglieria urbana e dunque dei magliari delle bancarelle di tutto il mondo.
E vado in via del Lavatore, passeggio nei vicoli attorno a Campo dei Fiori, entro nei negozi di souvenir di Corso Vittorio e dietro Piazza Argentina. Espongono i pinocchi, i piatti con le foto di papa Francesco, le sciarpe con i colori della Ferrari, le magliette di basket, i david, le valige con il corpo di Marylin, le statuette di Berlusconi. Ebbene, si trovano uguali al Kudamm di Berlino e lungo tutta la Broadway di New York, dilagano nelle città dell’America Latina e sulle bancarelle davanti alle rovine di Pompei. Tutti i souvenir del mondo sono fabbricati in Cina e tutti sono in vendita nella “Strada della seta” di Pechino che è il più grande mercato della patacca che esiste al mondo, una volta a cielo aperto e oggi a sei piani: l’esotismo omologato, il dominio di un ordine finto, al di là di ogni misura e di ogni codice, il triangolo delle Bermude delle identità perdute di tutte le città del mondo.
Ed è un impaludamento passeggiare lungo Calle Major a Madrid e guardare i “Compro oro”. Sembra di attraversare lo specchio di Alice e ritrovarsi nel riflesso di via Nazionale e non solo perché le botteghe sono identiche, un bancone e una bilancia, ma anche perché questi rifugi di disperati e di ladri, che stanno aumentando di numero in tutta Europa, hanno la stessa insegna — potenza neolatina! — sia a Madrid sia a Roma: “Compro oro”, appunto.
Ho persino fotografato, come un giapponese, la pizza a taglio che, in via Nazionale come in rue Saint Denis, non capisco mai se è secca perché è vecchia o perché è finta. E sugli Champs-Élysées, se si dimentica che da un lato c’è l’Arco di Trionfo e dall’altro la Concorde, ci si sente come al Corso Buenos Aires di Milano, sulla quinta strada di New York o in via del Corso a Roma. Ci sono infatti gli stessi Gap e gli H&M, i Sephora, e poi Adidas, Foot Locker, Timberland, Swatch, Muji, Calvin Klein, Promod, Benetton, Stefanel, Geox, Furla… Per non parlare dell’identità del superlusso che è un ossimoro perché vende l’esclusività, spaccia l’unicità a tutti i ricchi in tutto il mondo. Basta avere i soldi e tutti diventano sgargianti, anche se non certo memorabili, in rue Montaigne o nei magazzini Gum di Mosca, che sono il Santo Graal dei marchi più cari del pianeta. Questi marchi, che tutti conoscono e che dunque evito di elencare, sono i buchi neri dove non scompare solo l’identità delle città del mondo, ma scompare pure l’individuo.
Anche i luoghi di vendita, i centri commerciali grandi e piccoli, sono tutti uguali. Non solo offrono le stesse cose ma alla Rinascente, alle Galeries Lafayette, a Selfridges, da Harrods, da Bloomingdale’s e al KaDeWe ci sono le stesse scale mobili e le stesse scale di servizio. La stessa aria condizionata garantisce la stabilità di un’unica stagione dappertutto. Sono gli stessi il vetro, il cartongesso e l’alluminio. E sono uguali le insegne, le vetrine e i prodotti.
Indistinguibili.
Ma non sono le città che si assomigliano, anzi l’urbanistica preserva ancora le identità. I tetti di ardesia e il taglio arioso di Haussmann segnalano Parigi, ma se ti infili nelle stradine attorno a Notre Dame i tavoli invadano selvaggiamente le strade proprio come nei vicoli attorno a piazza Navona. E dovunque c’è la stessa puzza di topo cotto. Sia a Roma, sia a Parigi, sia a Barcellona ti tirano per la manica, ti propongono di sederti e di mangiare, qualche volta ti mettono in bocca una forchettata di spaghetti o un tocco di kebab. Cambia la città ma non il risultato: se hai fame ti passa.
Leopardi, che aveva viaggiato poco, notò che le città più sono grandi e più si somigliano, perché l’identità si annacqua e si diluisce nei ponti, negli ospedali, nelle caserme, nelle stazioni che sono edifici necessariamente ripetitivi. E non aveva visto gli aeroporti, i grandi alberghi e appunto i centri commerciali che l’architetto Rem Koolhaas ha battezzato “spazio spazzatura” (junkspace) per assonanza con il cibo spazzatura (junkfood), che non è McDonald, ma è fatto di panini precotti, orribili innanzitutto a vedersi sia nelle strade attorno a Les Halles, sia nei famigerati bar-mobili di Roma indecentemente benedetti dal Comune (il sindaco Marino li ha provati?). Il tonno sembra stoppa, il pane surgelato mantiene il sapore di crudo anche dopo che lo bruciano sulla piastra, la mozzarella non fila ma rimbalza e le olive nere camminano.
Eppure Leopardi sbagliava. A Bagheria nel corso Umberto l’insegna del parrucchiere è “Charme and beauty” come in rue Bonaparte e solo la simpatia maccheronica salva l’identità del pescivendolo di Acireale che vende “Fruits of the sea” con la traduzione italiana persino più divertente: “Frutta di mare”. Se un nuovo Guttuso volesse dipingere la Vucciria e i mercati meridionali, al posto delle facce virili del terzo stato dipingerebbe cinesi e immigrati. Anche a Londra e a Parigi i fruttivendoli non sono né inglesi né francesi. E ogni tanto sulle Ramblas, su Ponte Vecchio, a campo dei Fiori, improvvisamente ci sono omoni grossi che, sacco in spalla, fuggono travolgendo tutto, anche i contenitori della spazzatura, e altri omoni li inseguono. I turisti, ciascuno nella propria lingua, dicono: «Hai visto? Succede anche qua».
In Inghilterra, come ci ha raccontato Enrico Franceschini, le chiamano città clonate: «Il pub è un Wheterspoons o un All Bar One. Il ristorante è un McDonald’s per il fast food, un Wagamama per il cinese, Domino’s per la pizza, Nando’s per il pollo… Il supermercato è un Tesco, un Sainsbury o un Waitrose. La farmacia è Boot, la libreria è Waterstone, l’edicola è W. H. Smith. E il negozio di abbigliamento è Gap o Top Shop. Aggiungeteci un negozio di telefonini Vodafone, uno di elettronica ed elettrodomestici Curry, uno di arredamento Conran, e la strada, la high street è completa».
Ma non bisogna credere che sia l’effetto solo dei marchi commerciali. Io mi sono smarrito da fermo quando sono penetrato nella “Piccadilly Juegos” a Puerta del Sol che è un antro buio identico alla “Sala Gioco” di via Cavour a Roma. Persino l’odore è uguale, e forse perché il tennis con il metodo wii fa sudare, e la chitarra senza corde stanca. E dunque tutti puzzano della stessa puzza, e forse anche io puzzavo. Ed è un tanfo che dovunque si arricchisce dell’odore pungente dell’Ajax crystal clean, lo stesso identico prodotto che sgrassa gli schermi, gli specchi e i vetri in queste strade che sono tutte uguali perché forse sono una strada sola: la strada unica del mondo.