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 2013  luglio 07 Domenica calendario

Prima puntata È andata così, anche se fa male crederci. «Mi hanno prenotato l’impianto delle cellule staminali in un centro estetico di San Marino

Prima puntata È andata così, anche se fa male crederci. «Mi hanno prenotato l’impianto delle cellule staminali in un centro estetico di San Marino. All’ingresso la prima cosa che ho notato è stata la pubblicità di un trattamento dimagrante. C’erano i dottori Ferro e Fungi, una bellissima infermiera di Alba. Il ragazzo che stava facendo le pulizie, a un certo punto si è messo il camice ed è entrato con noi in una stanza. Li ho visti trafficare con un siringone pieno di un liquido biancastro. Mi hanno fatto sedere su un tavolo. Il ragazzo delle pulizie mi ha abbracciato con un cuscino e mi ha tenuto le gambe, mentre loro iniettavano nel midollo spinale». Nelle carte dell’inchiesta di Torino, lui è la vittima numero 52. Una di quelle ritenute più significative per capire cosa sia veramente l’associazione «Stamina Foundation» di Davide Vannoni. Si chiama Carmine Vona, 54 anni, commerciante ambulante, abita in un paese tranquillo fra i campi di mais. Dal 3 aprile 2008 ha la parte sinistra del corpo semi paralizzata per colpa di un ictus. Il trapianto di cellule staminali non l’ha fatto guarire, come promesso da Vannoni in persona. Neppure migliorare. Ma è soprattutto quello che è successo dopo il trattamento ad averlo convinto a sporgere denuncia. «Mi avevano prenotato una stanza all’hotel Passepartout di San Marino. Mi avevano assicurato che sarei stato tenuto sotto osservazione nelle ventiquattro ore successive all’intervento. Stavo guardando un film western alla televisione, quando mi sono sentito male. Ho avuto una crisi epilettica: la prima della mia vita. Schiumavo dalla bocca. Stavo per morire. Mi ha salvato un amico che mi ha accompagnato nel viaggio della speranza». Il signor Vona si risveglia all’ospedale civile di San Marino. Cerca i medici che lo avevano operato al centro estetico, per capire cosa fosse successo, ma erano già in viaggio all’altezza di Bologna. Li convince a tornare indietro: «Erano imbarazzatissimi - ricorda hanno negato di avermi fatto un trapianto di cellule staminali». La storia della vittima numero 52 ha molti punti di contatto con le altre. Partono tutte da un sogno di guarigione. Un miraggio che all’improvviso sembra a portata di mano. «La prima volta che ho telefonato a Vannoni, mi ha assicurato che sarei guarito, subito, al cento per cento». Subito. Senza dubbi né sfumature. Ecco la trafila. Visita di cinque minuti dal neurologo Leonardo Scarsella con studio a Moncalieri. Successivo appuntamento nello studio della «Stamina Foundation», uno scantinato in via Giolitti, nel centro di Torino. «C’erano una scrivania e un computer. Chiamavo Vannoni dottore, perché pensavo che lo fosse. Solo più tardi ho saputo che, in realtà, è un professore di psicologia. In effetti parlava bene, in maniera molto convincente. Ci ha fatto vedere due video impressionanti sul suo computer. Un ballerino quasi paralizzato, che dopo le staminali tornava a danzare alla grande. Un signore anziano in sedia a rotelle, che ricominciava a camminare. Il primo prezzo per il trattamento era di 27 mila euro. Visto che io e mia moglie eravamo titubanti, Vannoni ci ha proposto uno sconto fino a 21.600 euro». Silvia e Carmine Vona, tenendosi per mano, accettano: «In quei momenti sei fragile, faresti qualsiasi cosa per guarire». E così, prima del viaggio a San Marino, la vittima numero 52 si sottopone al prelievo: «Sono andato nella clinica privata Lisa di Carmagnola. Mi hanno preso un pezzo di osso con un carotaggio. Ricordo il medico, un ragazzo alto di Torino, che alla fine, con una valigetta in mano, mi fa: “Vado subito a coltivare le sue cellule”. Mi hanno chiamato dieci giorni dopo». Era il 2009. Carmine Vona, difeso dagli avvocati Stefano Castrale e Luisa Scotta, ancora aspetta, soffre e si indigna: «Ogni volta che vedo Vannoni in televisione mi arrabbio moltissimo. Fa affari sulla pelle dei malati». Le vittime del metodo Stamina solo a Torino, secondo il procuratore Raffaele Guariniello e i carabinieri del Nas, sono 62. L’inchiesta è alle fasi finali. Si va verso un rinvio a giudizio per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla somministrazione di farmaci pericolosi per la salute. Sarebbero dieci le persone coinvolte, fra cui due ricercatori ucraini. Carmine Vona aspetta di poter dare il nome esatto al trattamento ricevuto. «Ho cercato tante volte Vannoni al telefono, ma non mi ha più risposto». Se ne va zoppicando: «La cosa peggiore è che quando sono stato male, proprio Vannoni ha cercato in tutti i modi di convincermi a firmare una liberatoria. Voleva che mi assumessi io la responsabilità. Insisteva. Ho capito che erano arrabbiati con me, perché avevo parlato troppo». Il fatto è che certe volte i miracoli non riescono. Proprio di questo parla l’inchiesta della procura di Torino. Anche la signora Font ha pagato 27 mila euro: «Mio padre aveva il Parkinson, non riusciva più a camminare, avremmo voluto aiutarlo in tutti i modi. Ma dopo l’iniezione stava malissimo, delirava. Quando abbiamo cercato spiegazioni, ci hanno sbattuto il telefono in faccia. Questa è la cosa che mi tormenta ancora. Che mio padre si sia sentito preso in giro poco prima di morire». Seconda puntata Alle quattro di pomeriggio con l’afa romana che dà il meglio di sé, due guardie svizzere in uniforme e un gendarme con la divisa stazionano davanti all’ingresso della Casa Santa Marta,laresidenzastabiledel Papa e di un’altra quarantina fra vescovi, monsignori e laici che lavorano Oltretevere. È il segno che il numero uno si trova in sede. La bandiera bianca e gialla con le insegne vaticane svetta immobile e flaccida davanti alle finestre del secondo piano di questo parallelepipedo anonimo, fatto costruire da Giovanni Paolo II a metà degli anni Novanta per dare una sistemazione degna ai cardinali in conclave. Sono le stanze di Francesco. Dopo l’identificazione, l’ospite scende per la scala semicircolare che porta nella hall, austera e un po’ fredda. Lì, dietro il grande bancone, attende un laico dai tratti orientali con un abito color tabacco. Tutto è silenzioso. L’estate si avverte anche a Santa Marta e in più, ormai, gli ospiti sanno bene che Bergoglio può spuntare all’improvviso dall’ascensore, da una porta che si apre, dalla sala mensa, da uno dei salottini. Se si esce di stanza, bisogna essere sempre vestiti bene. All’interno, nella hall, ci sono un altro svizzero e un altro gendarme, entrambi in borghese. «Mi hanno fatto accomodare in una saletta con alcune poltrone foderate di verde. Il Papa - racconta il nostro interlocutore, ricevuto in udienza privata - è arrivato all’improvviso, da solo, senza segretari né maggiordomi, portando con sé una busta con dei rosari. Alla fine del colloquio lui stesso ha aperto la porta e mi ha accompagnato ai piedi della scala d’uscita». È una scena che meglio di qualunque altra descrive il cambiamento avvenuto nei sacri palazzi. Casa S a n t a Marta è una via di mezzo tra un albergo e una casa del pellegrino: difficile ripristinare qui il senso della corte, così evidente nel palazzo apostolico e nella sua rinascimentale dignità. Il nostro viaggio attraverso le più importanti novità prodotte dal Papa argentino, le piccole e grandi rotture del protocollo, e il loro significato, non poteva che cominciare da qui. La scelta di rimanere nella residenza dove ha alloggiato da cardinale durante il conclave, presa «per motivi psichiatrici», perché non gli piaceva «l’isolamento». Come aveva scritto all’amico prete argentino Enrico Martinez detto “Quique”: «Sono visibile alla gente, faccio una vita normale, mangio nella mensa con tutti...». E per il caffè non ci sono valletti ma una più prosaica macchinetta a gettone, nel corridoio comune. Al secondo piano, occupa la suite numero 201: pareti bianchissime e un po’ spoglie, un salotto con un paio di poltrone e una scrivania, una libreria a vetri, dei tappeti persiani, parquet chiaro tirato fin troppo a lucido, una camera da letto con un imponente letto in legno scuro, un bagno. Era la suite tenuta libera per gli ospiti importanti del Papa, come il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I. Ricevendolo, Francesco s’è scusato con lui: «Mi perdoni se le ho rubato la stanza...». «Ma io gliela lascio volentieri» è stata la risposta del patriarca ortodosso. Nelle stanze accanto al Papa vivono i due segretari: quello che Francesco ha «ereditato» dal predecessore, il maltese don Alfred Xuereb, e quello che si è scelto, l’argentino don Fabián Pedacchio. Figure meno ingombranti e certamente meno potenti dei loro immediati predecessori. Jorge Mario Bergoglio, continuando a concepire se stesso come un prete al servizio di Dio e perciò degli altri, non un monarca, è rimasto tale e quale anche dopo quel 13 marzo che gli ha cambiato la vita impedendogli di usare il biglietto di ritorno per Buenos Aires, già prenotato. Così Francesco, il Papa della porta accanto, ha voluto continuare ad abitare qui, spostandosi soltanto di qualche metro nello stesso piano, dalla più piccola stanza 207 assegnatagli per il conclave. Ha deciso di non occupare l’appartamento papale, anzi «l’Appartamento» con la A maiuscola, come veniva chiamata in gergo l’«entità» rappresentata dal più stretto entourage. Ne ha preso possesso, rimanendo impressionato per quanto grande fosse: «Qui c’è posto per trecento persone!». Non si tratta certo di una reggia. Ma si può capire la reazione, per uno abituato a vivere da cardinale in un paio di stanzette, rifacendosi il letto ogni giorno. Le prime novità erano arrivate già in conclave. Appena eletto, e prima ancora di indossare la veste bianca, Francesco era andato ad abbracciare il cardinale Angelo Scola, suo «concorrente» durante gli scrutini. Poi il rifiuto di indossare uno dei quarantacinque paia di scarpe rosse fatte preparare per l’occasione: meglio le grosse scarpe nere. Più che di gusti, questione di ortopedia, dato che le calzature già consunte gli servono per camminare meglio. Niente mozzetta rossa né rocchetto di pizzo. Niente croce pettorale d’oro, niente anello papale vistoso a diciotto carati. Niente macchinona blindata con targa «SCV 1», l’ammiraglia di un parco macchine vaticano che ha visto tornare in auge le più sobrie utilitarie. Niente scorta e gran movimento di gendarmi per ogni spostamento, anche minimo, all’interno del minuscolo Stato. Il piccolo mondo vaticano, che monsignor Marcinkus definiva «un villaggio di lavandaie», ha dapprima abbozzato, poi ha cercato di adeguarsi, come si è visto già due giorni dopo l’elezione, quando tutti i cardinali che salutavano il Papa nella Sala Clementina avevano riesumato croci in ferro o d’argento, lasciando nel cassetto quelle d’oro gemmate. A Santa Marta ci sono due ascensori, e uno si cerca di tenerlo libero per l’inquilino più importante. Ma capita spesso che Francesco s’infili in quell’altro. Due vescovi se lo sono visto entrare all’ultimo momento, prima che le porte si chiudessero e un po’ imbarazzati si sono appiattiti sul fondo, con il Papa che sorridendo ha detto loro: «No muerdo», non mordo mica... Gli aneddoti fioriscono, talvolta ingigantiti, come quello della guardia svizzera che aveva fatto il turno di notte e che si sarebbe visto portare un panino da Francesco. Da Santa Marta Bergoglio ama muoversi a piedi. Sabato 16 marzo ha rifiutato con un’eloquente gesto della mano - come a dire: «Ma state scherzando?» - il corteo di macchine predisposto per fargli fare cinquanta metri. Mentre un’altra volta uscendo, ha incontrato un vescovo che stazionava davanti all’ingresso: «Che fai qui?», ha chiesto. «Sto aspettando che mi vengano a prendere», è stata la risposta del prelato. «Ma non puoi andare a piedi?», ha replicato Francesco. Un Papa «normale» e proprio per questo straordinario. Che ripete le parole antiche e sempre nuove del Vangelo. «Parole che colpiscono molto - ci dice il professor Andrea Riccardi, storico della Chiesa - perché risuona in modo particolare l’autenticità della sua persona».