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 2013  luglio 07 Domenica calendario

AErto — che poi significa ripido — Mauro Corona è un’icona vivente. A metà strada tra un “Padre Pio” dei boschi che se non fa i miracoli poco ci manca e un Charles Bukowski rude e trasgressivo

AErto — che poi significa ripido — Mauro Corona è un’icona vivente. A metà strada tra un “Padre Pio” dei boschi che se non fa i miracoli poco ci manca e un Charles Bukowski rude e trasgressivo. Vengono dal resto del Friuli, dalla Lombardia, dal Veneto. Lo cercano nella bottega di artigiano dove lavora il legno, scalpellando madonne e angeli con mani nodose e dure. Rese forti dalle tante arrampicate sulle pareti dei monti lì intorno. Anni fa organizzò proprio sotto Erto una palestra per arrampicatori: corde, ramponi, paletti. Lo stesso armamentario che egli tiene dentro casa fra due stampelle di vestiti, la scrivania dove lavora, e i libri che ama. Vengono a cercarlo. Magari per una foto, una stretta di mano, una dedica da imprimere su un libro. Sono i lettori di Corona. Numerosi e ansiosi di fare un bagnetto nell’autentico. Perché è così che è vissuto lo scrittore: la bandana ribalda, la barba incolta, la canottiera che esibisce i bicipiti. Ma lui reagisce, imprevedibile: «Mi sono rotto, di questo tran tran. A che serve che la gente venga a vedermi, neanche fossi la madonna di Pompei. E io che gli dovrei dire? Arrivano, mi guardano speranzosi come se avessi uno scrigno pieno di saggezze da elargire. Non ho niente, non ho più nulla. Svuotato. Capisce?». Capisco, e mentre dice tutto questo non so se stia recitando o sia in preda al cupio dissolvi. Quanto si sente autentico? «Non sono così puro. Ho semplicemente capito cosa piace alla gente». E sarebbe? «L’autenticità possibile, con qualche dose di furbizia dentro. Ma se anche tutta la mia opera fosse da buttare non c’è una riga di cui dovrei vergognarmi». Ha sempre quest’aria spavalda? «A volte recito la parte dello spaccone, ma dentro ho la fragilità di esistere. Combatto l’angoscia scrivendo, scolpendo e scalando». In che ordine? «La mattina lavoro il legno, il pomeriggio passeggio in montagna e di notte scrivo. Dormo poco. È strano: scolpire e passeggiare non mi tolgono il senso di angoscia. Mentre se scrivo mi libero dei fantasmi. Non sono io che scrivo, c’è sempre qualcuno che lo fa al mio posto. Credo dipenda dal fatto che da bambino la nonna, che non sapeva leggere, mi raccontava delle storie che inventava. Anche il mio primo libro Il volo della martora erano storie che leggevo ai miei figli». Un libro di grande successo. «Credo abbia venduto circa tre milioni di copie. I primi racconti li buttai nella stufa. Li aveva letti Marisa Madieri, una donna straordinaria, moglie di Claudio Magris. Fu lei a incoraggiarmi, a dirmi che c’era del talento e che avrei fatto bene a pubblicarli. Mi rimisi a scrivere e vennero fuori quei racconti che nessuno si aspettava». Come reagì al successo? «Con stupore e vanità. Ma la cosa incredibile erano i soldi che arrivavano dai diritti. Tanti. Non sapevo come spenderli. Sistemai i miei figli. Mentre a me bastava la vecchia Panda, la casa nel bosco, un pasto al giorno, un buon libro e un litro di vino. Ma da tempo ho smesso di bere. Mi è rimasto il tempo libero per pensare ». Nel nuovo libro lei racconta il suo rapporto con l’alcol. «Cominciai a bere che ero molto giovane. Imitavo certi bracconieri che piegavano una sbarra di ferro con le mani. E quando mi accorsi che non potevo fare a meno di bere capii che quelle persone erano fragili e violente. Provengo da una famiglia violenta. Ho avuto una scuola senza pietà. Ho subito processi per bracconaggio e ubriachezza. Un giudice claudicante mi puntò sprezzante il suo bastone e disse: “All’estremità della punta c’è una canaglia” ». E lei si sentiva un po’ canaglia? «Sentivo la colpa crescere in me. Io non ero nato, ero semplicemente accaduto, ero un incidente di percorso. Ecco perché bisogna imparare a conoscere l’ambiente dal quale si proviene. Per me è stato il bosco e l’odore dei miei genitori a darmi un’identità. L’infanzia fu durissima. La mamma ci abbandonò che avevo sei anni. Se ne andò con un altro. Fui cresciuto dai nonni. Mio nonno mi insegnò a scolpire, mio padre ad amare le montagne e mia madre — quando tornò dopo la tragedia del Vajont — a leggere». Che ricordo ha del Vajont di cui stanno per scoccare i cinquant’anni da quella catastrofe? «Ricordo il rumore, irripetibile. Non c’è scrittura o racconto che possa restituirlo. Erto si salvò perché l’acqua fu deviata dal monte. Dopo quella tragedia furono stanziati dei fondi che aiutavano i figli dei più poveri a studiare. Mi spedirono in un collegio di preti. Ci sono rimasto per quattro anni. Un pomeriggio d’inverno arrivò mio padre con la motoretta. Mi disse: monta su che qui nessuno ti paga più la retta. Faceva un freddo pazzesco». E smise di studiare? «Andai a lavorare in una cava di marmo rosso. Quindici ore al giorno. Continuai per sei lunghe stagioni. Alla fine dissi o cambio mestiere o cambio testa. Sapevo di scultura, mi rivolsi ad Au- (recuperare il pezzo che manca)