Federico Rampini, la Repubblica 7/7/2013, 7 luglio 2013
ROCHESTER
Il futuro bussa sempre due volte. Potrebbe essere il motto di Rochester. Questa cittadina alla punta nordovest dello Stato di New York, sul lago Ontario ai confini col Canada, è il laboratorio di un esperimento che ci riguarda tutti. Una “rinascita” che sembrava impossibile. La reinvenzione di una vocazione manifatturiera... post-industriale. La creazione di una Silicon Valley sulle macerie di un disastro, nell’epicentro di un fallimento. Bisogna venire qui per crederci. E per individuare le ricette chiave di questo miracolo.
Rochester è un nome noto agli americani, è l’equivalente per la fotografia di ciò che Detroit fu per l’industria automobilistica. «Un tempo — dice Mark Peterson della Greater Rochester Enterprise (una specie di Confindustria locale, ancorché molto
light
nelle strutture organizzative) — questa era una città caratterizzata da una monocultura industriale. La maggioranza della forza lavoro operava per la Kodak. E dietro la Kodak c’era la Xerox. Tutta l’economia locale dipendeva da questi colossi della fotografia ». E non solo l’economia. Dai tempi del suo fondatore George Eastman, un personaggio alla Adriano Olivetti con un forte impegno sociale, la Kodak aveva anche finanziato generosamente le istituzioni culturali cittadine, dall’università ai musei, dall’ospedale alla filarmonica. Poi la magìa venne meno. La Kodak aveva dominato il mondo della fotografia pre-digitale, quello delle macchinette portatili o usa-e-getta, e soprattutto il business delle pellicole. Al passaggio del millennio i suoi dirigenti non capirono quanto il loro settore sarebbe stato rivoluzionato dall’avvento del digitale. Oggi tutti noi generiamo e consumiamo molte più immagini fotografiche che in passato, ma nessuno usa più le pellicole. Altri hanno cavalcato quella rivoluzione e si sono arricchiti, Kodak è entrata in una spirale di declino. Fino alla liquidazione fallimentare, secondo la procedura Chapter 11. «La Kodak aveva 65 mila dipendenti negli anni Ottanta qui a Ro-
— ricorda Peterson — oggi all’uscita dall’amministrazione controllata ne ha cinquemila». Un’ecatombe come quella avrebbe potuto trasformare Rochester in una città fantasma. «E invece la catastrofe annunciata non si è verificata — racconta lo scienziato Duncan T. Moore, vice-rettore della University of Rochester — perché nello stesso periodo in cui la Kodak licenziava, il saldo netto di posti di lavoro aggiuntivi per la comunità cittadina è stato molto positivo: più novantamila. Nessuno di noi è felice che la Kodak sia finita male, però non è stato un disastro. Anzi, proprio
quei lavoratori qualificati che la Kodak ha mandato via, sono diventati il giacimento di talenti che ha alimentato il fiorire di start-up, soprattutto nell’ottica avanzata e nella fotonica».
I dati confermano che la rinascita di Rochester è stata costruita dal basso. Il distretto dell’ottica, del laser e della fotonica, annovera 55 start-up con 24 mila dipendenti: e queste non fanno che crescere, continuano ad assumere. Partendo proprio dalle conoscenze che si erano accumulate qui a Rochester nei decenni aurei della Kodak. Uno dei protagonisti di questa reinven-
zione dell’industria ottica è Barry Silverstein, direttore tecnologico per la Imax. «Con 731 schermi già installati nel mondo intero — dice Silverstein — la Imax è leader nella tecnologia del cinema tridimensionale che riscuote un successo crescente nel pubblico. I nostri schermi installati aumentano al ritmo di cento all’anno, i ritmi di crescita più vigorosi oggi si stanno registrando in mercati emergenti come Cina e Russia». Silverstein fa parte della schiera degli scienziati e tecnici dell’ottica che hanno lasciato la nave che affondava (Kodak) ma non si sono trovati alla mercé delle corchester
renti in un naufragio. Hanno fatto tesoro delle proprie conoscenze, si sono uniti con altri, hanno creato delle nuove imprese. Oppure hanno trovato delle multinazionali dell’ottica — giapponesi, coreane, tedesche — interessate a investire qui per sfruttare questo vasto bacino di talenti. Perché l’altro ingrediente del Modello Rochester è l’università. Imponendosi come uno dei migliori politecnici mondiali nel-l’ottica, questo ateneo ha dato una marcia in più all’economia cittadina. «Oggi — dice lo scienziato Moore — la University of Rochester è diventata il principale datore di lavoro della città, prendendosi quel ruolo che per decenni era stato della Kodak». E se ai tempi di George Eastman era la stessa Kodak la più generosa mecenate che finanziava la ricerca, oggi l’amministrazione Obama non si è tirata indietro. «Abbiamo ricevuto più di 1,9 miliardi di dollari come fondi per la ricerca, soprattutto dal governo federale — conferma Moore — e questo è diventato un carburante per la crescita ben oltre i confini del campus universitario. Cinquantuno startup sono nate grazie a tecnologie inventate qui all’università. La distruzione creativa del capitalismo funziona al meglio quando si fa buon uso del capitale
intellettuale». A sua volta, la Kodak si è comportata in modo lungimirante. Anziché offrire ai suoi tecnici e ricercatori delle buonuscite verso il pensionamento anticipato, l’azienda, anche durante il periodo dell’amministrazione fallimentare ha incoraggiato gli “spin-out”, cioè l’uscita finalizzata alla creazione di altre imprese. Il 50 per cento degli ex dipendenti Kodak hanno lauree e dottorati in ottica. Non è strano che sia nato proprio qui uno dei laboratori laser più avanzati del mondo, attirando le multinazionali biotech.
Un’altra lezione della Silicon Valley dell’ottica: non è vero che la rinascita di una vocazione manifatturiera sia possibile solo rincorrendo al ribasso la Cina e il Bangladesh, il Messico e la Romania. «Negli Stati Uniti — dice il rappresentante confindustriale — ci sono delle aree che hanno cercato di diventare
competitive con bassi salari e sconti fiscali. Dal Tennessee all’Alabama,
l’industrializzazione del Sud si è accompagnata spesso a limitazioni nei diritti sindacali. Non è quello il modello che ci interessa. Noi qui siamo competitivi per il numero e per la qualità dei nostri laureati». È una lezione cui l’America intera guarda con attenzione, in una fase in cui Barack Obama teorizza la reindustrializzazione. Dalla rivoluzione delle stampanti 3D (che potranno consentire di produrre a prossimità del mercato di sbocco), alla rilocalizzazione di mestieri che erano finiti in Cina, il ritorno di un manifatturiero hi-tech nell’economia più ricca del mondo, si è guadagnato anche la copertina di
Time.
Qui a Rochester sanno che non è una sfida impossibile.