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 2013  luglio 07 Domenica calendario

WASHINGTON

È UNA storia d’amore in riserva, che brucia le sue ultime fiammate, quella che per un secolo ha unito l’America all’automobile e comincia a languire. Il popolo che inventò la motorizzazione di massa sta tradendo quell’amante di lamiera, gomma e plastica attorno alla quale aveva costruito una nuova “way of
life”, una nuova nazione.
SEMPRE meno americani la abbracciano, sempre meno ragazzi arrivano con il fiatone e gli occhi sgranati a quel traguardo dei sedici anni che per generazioni è stata la patente, la licenza di guidare, di muoversi, di andarsene, di amare, di morire.
Il
New York Times
riporta i risultati di una ricerca condotta dal Pirg, una delle massime organizzazioni di ricerche sociali non profit e indipendenti, che propongono una conclusione inesorabile: il picco del “driving boom”, degli anni della corsa all’automobile e in automobile è stato raggiunto nel 2006 e da allora il numero di chilometri percorsi al volante ha cominciato a scendere, nonostante l’aumento della popolazione. I 4 miliardi e ottocento milioni di chilometri coperti sette anni or sono, oggi sono discesi a meno di 4 miliardi e tutte le proiezioni indicano una caduta progressivamente più ripida.
Quello che neppure il Grande Terrore del 2001, i crac di Borsa,
i prezzi dei carburanti e le recessioni che si sono susseguite dalla fine della guerra avevano fatto, sta facendo un evento perfettamente pacifico: l’avvento dei “millenari” all’età della guida. Non di sette ambientaliste o catastrofiste, ma di ragazzi divenuti giovani adulti allo scattare del nuovo millennio che, senza averne coscienza diretta, senza rifiuti ideologici, stanno scoprendo che senza l’automobile si può vivere. Anche meglio.
Il 20 per cento in meno dei ragazzi americani, rispetto ai primi anni 2000, corre a prendere la patente a sedici anni, dopo settimane di scuola guida famigliare con la vecchia station wagon della madre sbattacchiata contro i cordoli dei marciapiedi e le fiancate delle auto posteggiate. In newtown, in città nuove o completamente rinnovate come Charlotte, già sonnolenta periferia del sogno americano nel sud e oggi centro finanziario e di servizi in crescita, l’industria edile punta a costruire quartieri prossimi a trasporti pubblici o addirittura indipendenti dal resto della città. «Possiedo un’auto» racconta un giovane ingegnere al
New York Times
«ma la uso talmente poco che mi dimentico dove l’ho parcheggiata nel garage pubblico».
L’anatema di generazioni uscite con la fame di auto dalla seconda Guerra, il trasporto pubblico, quegli autobus e treni relegati alle immagini e all’esistenza di chi non poteva permettersi “The Car”, la macchina, sono il trend anche fuori dalle metropoli come New York, o da isole come Manhattan, che da decenni hanno reso metropolitana e bus il mezzo d’obbligo. Ma il crepuscolo di questa
centenaria “Love Story” è un cambio di paradigma, come dicono i sociologi, un addio senza ritorno che lascia orfani chilometri
di cinema, di letteratura, di musica, di rapporti umani.
Negli anni della passione furiosa, gli anni ‘50 che spinsero
Jack Kerouac a rotolare lungo il piano inclinato del continente verso il Pacifico gettandosi “on the road”, che fecero conoscere
il sesso, se non l’amore, ai frequentatori dei drive-in, che produssero motel, fast food, traversate da costa a costa lungo la Route 66 per tuffarsi nel tramonto del Sunset Boulevard, tutto era pensato e costruito e cantato attorno alle quattro ruote. Sul muro delle fantasie adolescenziali, dal New Jersey alla California, erano le Studebaker e le Ford, le Cadillac e le Chevy a segnare i graffiti del tempo, incidendoli con le avventure dei Paul Newman e degli Steve McQueen, non per nulla ripreso con il nome nel delizioso e molto retrò “Cars” di Disney, e con la morte, naturalmente in auto, di James Dean.
Ora, l’America comincia a ripensare se stessa senza l’automobile e già da qualche anno, nei convegni di futurologi, il tramonto era stato visto e annunciato. L’automobile di oggi, così perfettina, così banale, così noiosa non diverte e non eccita più nei suoi stucchevoli automatismi, nella informatizzazione di tutto, nella manutenzione affidata al computer. «I giovani americani non hanno idea di che cosa significa guidare una macchina, cambiare le marce, identificarsi con i suoi suoni, con i difetti, con la cura che essa richiedeva fino a farne una cosa sola con i guidatore» lamenta Larry Downes, autore di saggi sulla high tech che parla come un reduce dalle Filippine e ha soltanto 40 anni. L’auto annoia e proprio nella ricerca soffocante della tecnologia e dell’informatica si suicida.
Cerca di abbracciare il nemico
che la sta uccidendo, quelle tecnologie e quella Rete che rendono sempre meno indispensabile il trasferimento fisico al posto di lavoro. Come “il video uccise le stelle della radio”, secondo una leggendaria canzone dei Buggles, o il sonoro distrusse i divi del muto, così i collegamenti virtuali spingono verso l’obsolescenza del trasporto individuale per il lavoro. Naturalmente, anche le notizie della morte dell’automobile sono grandemente esagerate e le profezie della futurologia, come le estrapolazioni statistiche, hanno una lunga e solida storia di previsioni sbagliate. I 140 milioni di auto private che in questo momento sono registrare negli Usa non si dissolveranno nel viale del tramonto e ancora scadenti, o inesistenti sono i mezzi pubblici in città come Los Angeles perché se ne possa fare a meno. Ma quando i ragazzi di 16 anni sognano un tablet più che una Corvette, molte di quelle 140 milioni di “car” sono destinate a raccogliere polvere nei parcheggi.