Roberto Perrone, Corriere della Sera 7/7/2013, 7 luglio 2013
DAL NOSTRO INVIATO
LONDRA — La ragazza che voleva essere una Bond-girl ora forse avrà la parte. Peccato che l’agente 007 di cui è innamorata sia Pierce Brosnan, un ex. Si arriva sempre troppo tardi nella vita. Mai, comunque, per essere regine di Wimbledon.
Marion Bartoli supera la tedesca di sangue polacco Sabine Lisicki 6-1, 6-4 nella finale più bassa, per il valore delle protagoniste della storia Open (entrambe senza uno Slam, con la prima vincitrice che non supera mai un’avversaria tra le prime 10) e sicuramente in quella con più lacrime. Sabine comincia a piangere nel quarto gioco del secondo set, poco prima dell’1-4, quando capisce che non andrà lontano. I tre match point che annulla e i tre giochi che conquista servono solo a prolungare l’agonia. Due i momenti chiave: i 14 punti giocati nel sesto gioco del primo set e i 16 del secondo gioco del secondo, due piccole maratone entrambe per Marion. Un presagio.
Nel 2007, quando raggiunse la sua prima finale sull’erba più verde del mondo (per finire strapazzata da Venus Williams), Marion vide Pierce Brosnan, l’attore di cui teneva il poster in camera, nel Royal Box e disse di aver vinto per lui. Poi, ha raccontato, si sono anche incontrati in un’aeroporto, e hanno chiacchierato un po’. Lui le avrebbe giurato che, se fosse arrivata in finale a Church Road un’altra volta, sarebbe venuto a vederla. Purtroppo in questi giorni piange la morte della figlia, molto lontano, in tutti i sensi, dal tennis.
Quindi Marion ha trovato la sua forza in se stessa, nel suo carattere, in quel suo corpo sgraziato, apparentemente inadatto allo sport. È lei la prima ad ammetterlo: «Non sono fatta per l’alto livello, ho dovuto sempre faticare più delle altre». Ha arginato i suoi tic nervosi (ne ha almeno quanti Nadal) e si è issata fino a qui, al regno in mezzo all’erba, con gli occhi gonfi e il viso rigato. «Non credo ancora di esserci riuscita. Sognavo Wimbledon da quando avevo 6 anni. Io sono Marion e non cambierò, però “Wimbledon champion” suona bene. Molto bene».
Nata a Le Puy-en-Velay, ma cresciuta a Retournac, borgo di 2.700 anime nell’Auvergne, Marion ha sangue corso nelle vene. Tutto carattere. Comincia da allenarsi in una palestra dove la riga di fondo coincide con il muro. «Ero costretta a giocare dentro il campo». Sfascia qualche racchetta prima di formare questo gioco aggressivo-bimane che ricorda quello del suo idolo Monica Seles. Ha sempre voluto essere la prima, sia in campo che a scuola dove, se non prendeva dieci, andava fuori di testa. Appassionata di aritmetica, quando non discute della sequenza di Fibonacci o risolve Sudoku complicatissimi, dipinge paesaggi alpini.
Campionessa junior agli Us Open a 17 anni, la sua carriera trascorre nel precario equilibrio creato dal conflittuale rapporto con il padre medico-coach per cui entra in contrasto con la Federazione ma con cui ha scontri violentissimi: nel 2011, proprio qui, durante un match perso con Flavia Pennetta 9-7 al terzo, lo «espelle» dal campo in maniera plateale. Non gode di buona stampa, non è molto amata, neanche dai francesi che ora cantano la Marsigliese (a denti stretti). L’Équipe, due giorni fa, impietosamente, ha elencato i suoi cambi d’umore e di tecnici dall’inizio del 2013 a oggi. Il momento chiave: al Roland Garros «licenzia» il signor Walter Bartoli, restituendolo al ruolo di padre che abbraccia in tribuna, da regina di Wimbledon.
Roberto Perrone