Sergio Romano, Corriere della Sera 7/7/2013, 7 luglio 2013
PERCHÉ TUTTI IN ITALIA POSSONO PARLARE DI TUTTO
L’Italia è l’unica nazione, ch’io sappia, in cui i ministri fanno dichiarazioni tipiche degli oppositori: lamentano, criticano, deplorano i difetti delle loro stesse amministrazioni. Senza che nessuno, neppure i media, se ne sorprendano. Non Le pare che un ministro dovrebbe fare e tacere, salvo annunciare le vere realizzazioni; se no, dichiararsi impotente e dimettersi?
Pietro Di Muccio
de Quattro
dimucciodequattro
@alice.it
Caro Di Muccio,
T emo che il problema sia ancora più serio. L’Italia è anche il Paese in cui ogni titolare di pubbliche funzioni sembra avere, in linea di principio, la facoltà di oltrepassare il limite delle proprie competenze originali per dare giudizi ed esprimere opinioni su qualsiasi argomento d’interesse generale. In alcuni casi, come quello della Corte dei conti, è accaduto grazie a una legge che consente al suo vertice di fare ciò che per molto tempo era riservato al governatore della Banca d’Italia. In altri casi gli sconfinamenti sono stati tollerati. I magistrati danno interviste, scrivono libri, partecipano a tavole rotonde e talvolta a manifestazioni popolari. In alcuni casi preparano così una futura carriera politica; in altri soddisfano un personale desiderio di notorietà.
Uno dei casi più interessanti è quello dei presidenti delle Camere. Nella maggior parte delle democrazie parlamentari vengono scelti fra personalità volutamente grigie, molto rispettabili ma poco loquaci, tecnicamente in grado di garantire una presidenza distaccata e tanto più credibile quanto più anonima. In Italia, invece, vengono scelti in funzione degli equilibri politici che si ritengono necessari al governo del Paese. Pietro Ingrao e Nilde Jotti presiedettero la Camera con una forte autorevolezza personale, ma vennero scelti perché erano comunisti in un momento in cui il Pci si era avvicinato all’area del governo. Se una persona conquista un incarico pubblico in funzione della sua provenienza politica, è inevitabile che conservi un rapporto di fiducia con il suo partito. Estenda queste riflessioni, caro Di Muccio, a tutti coloro che devono la loro posizione alla politica e capirà meglio perché tante persone in Italia si ritengano autorizzate a parlare di tutto.
Nel caso dei ministri il fenomeno è dovuto a un’altra anomalia italiana. In Francia, come abbiamo constatato negli scorsi giorni, il presidente della Repubblica può convocare al palazzo dell’Eliseo la signora Delphine Batho, ministro dell’Ambiente, e chiedere le sue dimissioni per avere osato lamentarsi dei tagli inflitti al bilancio del suo ministero. In Italia il presidente del Consiglio può agire soltanto quando la possibilità di un’indagine giudiziaria facilita il suo compito, come nel caso recente del ministro delle Pari Opportunità. Ma se la signora Idem si fosse limitata a criticare il proprio bilancio, avrebbe dovuto pazientare e tollerare. Quando Lamberto Dini, presidente del Consiglio dal 1995 al 1996, volle sbarazzarsi del suo Guardasigilli, dovette aspettare che la Camera lo sfiduciasse.
Questi due fenomeni — la lottizzazione su scala nazionale e i limitati poteri del presidente del Consiglio — hanno esautorato l’esecutivo, frantumato il potere e creato un coro di voci stonate. Il potere, in Italia, è ovunque, vale a dire da nessuna parte.
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