Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 07 Domenica calendario

Armi, droga, schiavi e jihadisti Il Far West dei beduini nel deserto La penisola del Sinai non conosce legge se non quella delle tribù dedite al racket DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME — «Oh cavaliere del nobile veicolo / che nessun scudiscio per cammelli può far sterzare / Corre a 200 all’ora come l’esercito di Saddam che lancia un missile Scud / La fabbricazione non lascerà delusi, questi stranieri non falsificano!»

Armi, droga, schiavi e jihadisti Il Far West dei beduini nel deserto La penisola del Sinai non conosce legge se non quella delle tribù dedite al racket DAL NOSTRO CORRISPONDENTE GERUSALEMME — «Oh cavaliere del nobile veicolo / che nessun scudiscio per cammelli può far sterzare / Corre a 200 all’ora come l’esercito di Saddam che lancia un missile Scud / La fabbricazione non lascerà delusi, questi stranieri non falsificano!». Tiaha ha trovato le parole che non saprebbe leggere o scrivere per glorificare i fuoristrada. Il poeta beduino esalta i gipponi che pestano il deserto del Sinai e hanno trasformato i piccoli clan di trafficanti in eserciti capaci di mobilitare migliaia di uomini in poche ore. I cammelli d’acciaio portano montati sulla gobba mitragliatrici pesanti, dai finestrini oscurati affiorano i lanciagranate. Sono diventati il simbolo del nuovo potere tribale, il marchio minaccioso di quello che Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, chiama «il selvaggio West sulla nostra frontiera sud». La penisola che gli storici egiziani definiscono «lo scatolone di sabbia» collega due continenti e si estende per 61 mila chilometri quadrati, due volte la valle e il delta del Nilo messi insieme, tre volte Israele e duecento la Striscia di Gaza. Con tutti e tre confina, a tutti e tre ha creato problemi. I 300 mila beduini rappresentano il 70 per cento della popolazione e appartengono a una ventina di tribù. Che hanno le loro leggi e le loro usanze: si sentono molto più vicini ai palestinesi dall’altra parte della barriera che ai connazionali nella capitale. «Il nostro linguaggio e le nostre tradizioni sono gli stessi di Gaza. Viviamo a 40 chilometri da Rafah e a 200 dal Cairo», spiega un capo clan in un dossier dell’istituto britannico Chatham House. O come commenta un intellettuale locale, a trentun’anni dal ritiro israeliano: «Il Sinai è ritornato all’Egitto, l’Egitto non è ritornato al Sinai». L’area è rimasta fuori dal controllo governativo e le tribù più potenti — i Sawarka, i Rumaylat, i Tarabin — hanno continuato a trafficare, un’economia parallela che vale 250 milioni di euro: in armi e automobili dalla Libia, marijuana e oppio coltivati sul posto, cemento dalla Turchia, clandestini in fuga dal Sudan e trattati come schiavi da traghettare attraverso la sabbia fino al confine israeliano. I tunnel dei contrabbandieri verso Gaza servono a muovere le merci e qualche volta la vendetta: la polizia di Hamas punisce chi risolve da solo le faide, così i beduini passano dall’altra parte per colpire un parente dell’avversario. Perché la loro legge resta quella raccontata nel 1905 da Lord Cromer, console generale britannico al Cairo: «La regola dell’al diya, prezzo del sangue, prevede che se una persona ne uccide un’altra, il padre della vittima o un parente fino al quinto grado abbia il diritto di vendicarsi o ottenere 41 cammelli di risarcimento». I beduini stanno imparando a rispettare nuove norme, i precetti islamici predicati dagli sceicchi. «I clan sono diventati profondamente religiosi — scrive sulla rivista Jerusalem Report l’analista israeliano Avi Issacharoff — le moschee sono finite sotto il dominio di gruppi fondamentalisti arrivati da fuori. Gli abitanti hanno aiutato i terroristi ad acclimatarsi: hanno insegnato loro come evitare i posti di blocco e le pattuglie della sicurezza egiziana». Le usanze locali vengono soppiantate dalla supremazia delle milizie di Takfir wal-Hijra, estremisti che sostengono di avere legami con Al Qaeda e non temono l’autorità dei clan. I salafiti si sono opposti a traffici lucrosi per i leader locali come quello di organi espiantati dai clandestini africani. Dopo l’attacco alla caserma della polizia di El Arish, due anni fa hanno cominciato a circolare volantini di rivendicazione firmati da «Al Qaeda nella penisola del Sinai»: invocano la creazione di un Emirato islamico, l’imposizione della sharia, la cancellazione del trattato di pace Egitto-Israele, la fine della discriminazione contro le tribù. «Il mix di richieste tipiche della jihad globale con le recriminazioni di sempre dei beduini — elabora Bruce Riedel, ex analista della Cia, su The National Interest — dimostra che la popolazione locale, dimenticata per anni dal governo, si è radicalizzata». Il presidente Anwar Sadat, prima di essere assassinato nel 1981, progettava di spostare 5 milioni di egiziani nella penisola, l’acqua del Nilo sarebbe stata deviata, il deserto sarebbe diventato campi coltivati, nuove città avrebbero sostituito i vecchi villaggi. E’ quello che ha realizzato Hosni Mubarak con un piccolo borgo di pescatori, solo che lo sviluppo turistico di Sharm el-Sheikh (diventata la residenza estiva dell’ex presidente) non ha beneficiato i beduini. Anzi l’espansione della Riviera sul Mar Rosso è stata percepita come un’invasione dalla capitale, ha tolto il (poco) lavoro agli abitanti che sono stati costretti a lasciare la costa meridionale per rifugiarsi sulle montagne dell’interno. Da dove sono ridiscesi con le auto imbottite di tritolo: tra il 2004 e il 2006 gli attentati hanno devastato Taba, Ras al—Shaitan, Nuweiba, Sharm el-Sheikh, Dahab. Una vendetta da 130 morti contro il turismo egiziano. Anche Mohammed Morsi ha pensato di aiutare «i figli del Sinai»: due viaggi presidenziali — le prime visite ufficiali in trent’anni — e una purga che ha decapitato i capi della sicurezza nella zona, dopo il massacro di 16 soldati a Rafah il 5 agosto dell’anno scorso. Il capo dello Stato deposto mercoledì ha incoraggiato il dispiegamento dell’esercito e per la prima volta dalla guerra del 1973 gli elicotteri d’attacco egiziani hanno sparato missili nel Sinai. Ha però evitato il confronto militare diretto con i clan e i cavalieri hanno continuato a spadroneggiare sui loro cammelli d’acciaio. Davide Frattini