Cecilia Zecchinelli, Corriere della Sera 7/7/2013, 7 luglio 2013
DAL NOSTRO INVIATO
IL CAIRO — Durante il drammatico quanto gelido annuncio in tv che Mohammad Morsi non era più presidente dell’Egitto, mercoledì sera c’era lui a fianco del capo dei generali Al Sisi. Mohammad El Baradei, 71 anni, già capo dell’Agenzia atomica dell’Onu e premio Nobel, da poco era stato nominato rappresentante del Fronte 30 giugno formato dagli oppositori al raìs islamico. Ma molti avevano visto in quel momento la conferma che altro lo attendeva nei giorni a venire. Sarà il nuovo premier, o almeno vicepresidente, dicevano le voci aggiungendo che fino all’ultimo El Baradei avrebbe respinto ogni carica. Meglio restare dietro le quinte, come grande tessitore. Già l’anno scorso non si era presentato alle presidenziali, recentemente aveva dichiarato che nemmeno alle prossime, quando saranno, avrebbe corso. Invece, ieri ha ceduto accettando di essere premier. A dire di no, dopo ore in cui l’incarico era stato confermato da fonti della presidenza, è stato il partito salafita Al Nour, parte cruciale del Fronte 30 giugno. Ma in un Paese dove i colpi di scena sono quotidiani, niente è ancora detto, nemmeno che quel «no» dei salafiti resti un «no».
Laureato in legge al Cairo, subito entrato al ministero degli Esteri, El Baradei ha passato quasi tutta la sua vita fuori dal suo Paese: alle missioni Onu a New York e Ginevra, poi dal 1984 al 2009 all’Agenzia atomica, gli ultimi 12 anni come capo. Periodo difficile, soprattutto per i dossier iracheno e iraniano: cercò di mantenere posizioni indipendenti, insistendo che si potevano trovare soluzioni pacifiche anche nei casi più controversi, come le famose «armi i distruzione di massa» di Saddam (di cui dubitava) o sull’arsenale degli Ayatollah (su cui voleva certezze). Guadagnandosi spesso l’accusa di debolezza da parte di governi occidentali, ma poi, alla fine, quel Nobel per la pace che ne certifica capacità e correttezza.
La sua reputazione è infatti oggi alta nella comunità internazionale. E non solo perché è uomo di mondo con case in Europa, poliglotta e a suo agio (pur da timido) ovunque. In Egitto questo è stato però uno svantaggio. Nel 2010, quando qui fondò il «Fronte nazionale del cambiamento» anti-Mubarak, lo seguirono in pochi. Si diceva che era un khawaga, straniero, che dell’Egitto non sapeva niente, o peggio che era un «uomo degli Usa», E poi beveva vino e parlava in modo strano, le figlie si fotografavano in bikini. Tutti i media in Occidente lo intervistavano, qui lo volevano al massimo i «ragazzi di Facebook». Dopo la Rivoluzione, di persona o su twitter (che usa molto) mise in guardia i vincitori dal correre troppo: per contrastare sia i Fratelli sia i generali, che criticò apertamente, ci voleva una nuova Costituzione, e solo allora andare alle urne. «Altrimenti avrete un raìs imperatore, con tutti i poteri, sarà un disastro». Non fu ascoltato, il risultato si è visto.
Sotto la presidenza Morsi, nel clima di disfatta dei laici che solo da poco hanno rialzato la testa, ha fondato un nuovo partito, Al Dustur, la Costituzione. Con alcuni noti liberal (da Gamila Ismail, ex moglie di Ayman Nour all’anziano attivista copto George Ishaq) ha continuato a insistere sulla necessità di ripartire da capo, per creare le basi di una democrazia. Non voleva arrivare al «golpe», che ovviamente lui ora non chiama così. Le sue posizioni, simili a quelle degli Usa, era di negoziare un compromesso con Morsi. Ma svanita ogni possibilità di intesa ha deciso di mantenere il suo impegno nella politica dell’Egitto. E di accettare, forse a denti stretti, quel ruolo di premier. Difficile dire se il «no» imposto dai salafiti nella notte sia stato per El Baradei una delusione. Magari, è stato un sollievo: fare il premier egiziano, per quanto di transizione, non è certo impresa facile.
Cecilia Zecchinelli