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 2013  luglio 05 Venerdì calendario

I PAESI POVERI NON DEVONO PIÙ PRESTAR DENARO AI RICCHI

Nel 2010 Jacques Attali ha pubblicato un libro che ha fatto scalpore, come un severo monito: Tous ruinés dans dix ans? Dette publique: la dernière chance. Nella prima parte l’economista francese volgeva uno sguardo al passato, all’evoluzione del debito pubblico nei tornanti più difficili della storia europea e americana, ma la sua attenzione era tutta concentrata sulla crisi finanziaria che scuoteva il mondo sommerso da una montagna di debiti: secondo l’orologio dell’Economist, che misura la sua crescita mondiale minuto dopo minuto, raggiungeva i 35.118,911 miliardi di dollari (nel momento in cui scrivo queste righe ha toccato i 50.678,397 miliardi).
La preoccupazione di Attali era determinata dall’astronomica cifra del debito ma anche, e forse soprattutto, dai rapidi cambiamenti provocati dalla fase più acuta della globalizzazione che avanzava al di fuori di ogni regola. «Nel 2007», osservava, «la mondializzazione priva di qualsiasi controllo, e l’assenza di uno Stato di diritto planetario, fa convergere in una dinamica esplosiva tutti i meccanismi che si sono manifestati nelle crisi del passato». E precisava, alla luce dell’esperienza storica, che «questa dinamica si traduce, come sempre, nell’esplosione di una bolla finanziaria, in un collasso del sistema bancario, nella presa di coscienza di un sovraindebitamento dell’economia, nel trasferimento di debiti privati delle banche sui bilanci degli Stati che, a loro volta, rischiano il fallimento». Insomma, una catena esplosiva.
Gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale non inducono all’ottimismo. Il debito pubblico delle economie avanzate ha superato ormai il 100% del Pil, toccando punte inimmaginabili fino a pochi anni fa. In cima alla lista dei Paesi meno virtuosi si colloca il Giappone con un debito rapidamente avviato al 240% del Pil; la Grecia sfiora il 170%; l’Italia ha superato di nuovo la soglia del 120%, seguita a poca distanza dall’Irlanda e dal Portogallo. Gli Stati Uniti si attestano ormai intorno al 100%. Se la cavano meglio i Paesi europei più robusti come la Francia e la Germania (il loro indebitamento oscilla fra l’82 e l’85%).
Non era mai accaduto che in tempo di pace il debito pubblico raggiungesse soglie così elevate. Tutto è incominciato tra il 1970 e il 1975 quando l’indebitamento delle economie avanzate aveva toccato uno dei punti più bassi del secolo scorso attestandosi intorno al 30% del Pil. Poi è iniziata la scalata che nell’arco di quattro decenni lo ha visto aumentare di tre volte e mezza. Le cause vanno ricercate nell’espansione incontrollata della spesa sociale, anche se non è questa una buona ragione per tagliarla drasticamente, tanto più che l’impennata maggiore del debito si è registrata quando le banche sull’orlo del fallimento si sono salvate solo grazie all’intervento pubblico. Per farsi un’idea approssimativa di quanto il salvataggio delle banche sia costato ai contribuenti americani basta ricordare che nel 2009 il Tesoro statunitense è stato costretto a emettere titoli il cui valore era sette volte e mezzo quello delle entrate fiscali.

Chi è più minacciato. La sensazione che ci troviamo da qualche tempo sull’orlo del baratro è piuttosto diffusa. Del resto questa sensazione non è una novità dei nostri giorni. Alla fine del ’700 Adam Smith metteva in guardia i suoi contemporanei contro gli enormi debiti che schiacciavano le maggiori nazioni europee e ammoniva che il loro aumento le avrebbe con ogni probabilità mandate in rovina. Fortunatamente la fosca previsione dell’economista scozzese non si è avverata, e tuttavia i timori non si sono dissipati. Oggi ci si chiede, senza trovare una risposta convincente, se esiste una soglia oltre la quale il debito pubblico diventa insostenibile. Secondo Jacques Attali «la storia mostra soltanto che i mercati finanziano agevolmente livelli di debito molto più elevati di quelli previsti da tutte le dottrine; e che alcuni Paesi se la cavano bene con un debito pari al 250% del Pil mentre altri falliscono con un debito sovrano pari al 20% del loro reddito nazionale». E appena dopo spiega il perché: «Lo scoppio di una crisi del debito sovrano dipende da molteplici fattori: la fiducia dei prestatori, le loro attese, la capacità politica di un Paese di mantenere la parola data, l’andamento del tasso di crescita e del tasso di interesse, il trend demografico, la capacità delle entrate di far fronte al servizio del debito, l’avanzo primario… le condizioni del patrimonio pubblico… e ancora la capacità del governo di aumentare le imposte e ridurre le spese».
Dobbiamo concludere che, nonostante la montagna di studi sfornati negli anni della crisi, navighiamo ancora a vista. «Nessun indice», scrive sempre Attali, «può far prevedere lo scoppio di una crisi a eccezione, forse, dell’incidenza del servizio del debito sul bilancio dello Stato: quando raggiunge il 50% delle entrate fiscali, il disastro è inevitabile». Questo avvertimento suggerisce che non ci si può indebitare all’infinito e che la mancanza di opinioni condivise sui limiti del debito pubblico non può lasciare spazio all’arbitrio se non altro perché sarebbe ingiusto accollare alle nuove generazioni il costo dei nostri errori e del nostro lassismo.
Se è consentito citare ancora una volta Attali, che del debito pubblico ha compiuto un’analisi lucida e appassionata, da anni ci troviamo di fronte a un paradosso difficilmente giustificabile: «È sempre accaduto, e oggi più che mai, che una parte del mondo sia indebitata nei confronti di un’altra. Attualmente la parte del mondo che si suppone più ricca è indebitata nel confronti dell’altra ritenuta più povera. In particolare, una parte dei Paesi più prosperi prende a prestito denaro dal resto del mondo nel quale troviamo fondi sovrani ma anche persone molto povere che preferiscono mettere da parte qualche risparmio per la loro sicurezza». Questi flussi di denaro fanno a pugni con l’aspirazione a una maggiore giustizia internazionale e con ogni principio etico. Occorre perciò ripensare il debito pubblico in una prospettiva di maggior respiro, che abbia come obiettivo il progresso del genere umano. Il suo utilizzo come strumento per sottrarsi a scelte difficili non è più ammesso.