Giuseppe Videtti, il Venerdì 5/7/2013, 5 luglio 2013
GIÙ LE MANI DA VERDI ALTRO CHE IL RIGOLETTO IN MOTOCICLETTA
MILANO. L’attico racconta di un altro tempo, quando l’Italia era la patria dell’opera e la lirica canzone nazionale. Lo studio di Carlo Bergonzi, ultimo grande tenore dell’epoca d’oro del bei canto, è pieno di riconoscimenti, cimeli, fotografie. Spartiti autografi di Giuseppe Verdi, immagini dei trionfi al Metropolitan e al Covent Garden con la Callas e la Tebaldi, della stretta di mano con la regina Elisabetta, degli abbracci con von Karajan e Bruno Walter, dei brindisi con Elizabeth Taylor e Ava Gardner. Il più autorevole interprete del repertorio verdiano compie 89 anni il 13 luglio e nel centenario della morte del grande compositore festeggia con una riedizione dello storico cofanetto 31 tenor arias (Ed. Decca). «Le mie condizioni di salute mi condannano all’immobilità», dice il tenore, la voce flebile che inaspettatamente si rianima nel momento in cui ha in mano il suo disco e comincia a ricordare, insieme alla moglie Adele e a Marco, il minore dei due figli, che a Busseto gestisce un ristorante. «Mi distrugge la stanchezza fisica, ma m’è rimasta la memoria», dice. Infatti ricorda i particolari della sua infanzia, dettagli della prigionia, giorno, mese e anno di ogni allestimento teatrale e di ogni incisione. «Debuttai come baritono nel ’47 nel Barbiere di Siviglia, qui a Varedo, vicino Milano. Volevo fare il tenore ma avevo bisogno di soldi e abbozzavo poiché gli impresari sostenevano che ero un baritono. Intanto imparavo dai grandi dell’epoca: Pertile, Gigli, Schipa. Come tenore debuttai con l’Andrea Chénier al Petruzzelli». Proprio a Bari fu contattato dalla Rai che stava organizzando un evento per il 50° anniversario della morte di Verdi. Gli offrirono la Giovanna d’Arco con la Tebaldi diretta da Carlo Maria Giulini e 50 mila lire al mese. «Tutto partì da lì.
Poi non mi sono più fermato per 53 anni». Potere della lirica: dopo tre anni era alla Scala e subito dopo all’Opéra di Parigi. «Lì, alla fine del terzo atto della Manon sentii un “bravo” che buttò giù il teatro. Sa chi era? Del Monaco. Venne a bussarmi in camerino. “Lei è un grande tenore, la faccio venire al Metropolitan, le cedo due mie recite così evita l’audizione” mi disse. Ci rivedemmo a New York, dove stava facendo la Nonna con la Callas. Mi seguì giorno per giorno, ora per ora, fino al debutto. Quella sera, Rudolf Bing (leggendario sovrintendente del Met) mi appoggiò la mano sulla spalla: “Carlo, stasera è l’ora della verità”. Feci il Celeste Aida col si bemolle pianissimo come vuoi Verdi e in teatro si scatenò il finimondo».
Piange come un bambino ricordando il giorno della consacrazione. Del Monaco lo aspettava dietro le quinte: «Questa è la più grande soddisfazione che ho avuto nella mia carriera», gli disse. Il giorno dopo era in prima pagina sul New York Times. Titolo: È arrivato il Radamès che Verdi sognava. Bing prese la palla al balzo: «Resterai al Met per tre anni». Cantava contemporaneamente Aida, Bohème e Butterfly, con lui Renata Tebaldi e Leontyne Price. Fu allora che Bruno Walter lo chiamò per il Requiem. Prove al Waldorf Astoria. «"Sono alla fine della carriera” mi disse il maestro “ma ho avuto l’onore di dirigere un grande giovane tenore”. Era lui il più grande, lui e Toscanini, che era ancora vivo. Vede quanta fortuna ho avuto in vita mia? Poi sono venuto alla Scala a sostituire Di Stefano nella Forza del destino; nel 1965 all’inaugurazione della stagione col maestro Gavazzeni, un trionfo. Ci sono solo due nazioni dove non ho cantato, India e Corea. Dopo il Met solo grandi teatri. Alla Staatsoper di Vienna von Karajan mi volle per l’Aida con la Tebaldi e successivamente per Bohème e Tosca. Ne abbiamo fatte di opere insieme. Diceva: “Nessuno mi fa stare tranquillo come Bergonzi, mai una lamentela, mai un malanno”».
Si commuove di nuovo ripensando al galà d’addio al Covent Garden, il palcoscenico coperto di fiori, il pubblico in delirio. «Lo avevano scritto proprio dopo una recital al Covent Garden: il più grande tenore verdiano del Novecento. Non credevo di meritarlo, ma me lo sono tenuto. Sprofonda nei ricordi, torna Radamès. «Allora ce n’erano di tenori e baritoni, quelli veri, quelli che facevano tremare i teatri. Io sono uno degli ultimi. Corelli, Di Stefano, Del Monaco, Cappuccini, Raimondi, Bastianini, c’era l’imbarazzo della scelta. Tra le colleghe, due le migliori: la Callas per la grinta e l’interpretazione; la Tebaldi perché aveva la più bella voce che si potesse sognare. Io con Maria mi son trovato sempre bene. In sala d’incisione con la Tasca di Prétre, alla Scala con la Lucia. Una gran signora. Donna di temperamento, certo; ringhiava se qualcuna pretendeva di essere migliore. Ricordo una Lucia di Lammermoor a Chicago: la richiamarono sul palco trenta volte. Fu lei a volermi nell’ultima incisione della Tosca».
Ricorda perfettamente anche quell’8 settembre del 1943. Aveva 19 anni, capitan maggiore di artiglieria a Mantova. «Ero in infermeria con la febbre a quaranta. I tedeschi mi prelevarono e mi portarono a Neubrandenburg, tre giorni di viaggio, m quaranta dentro una tradotta. Prigioniero fino alla fine della guerra. Feci tutti i mestieri, pala e piccone, muratore, pasticcere, autista di camion a legna. La passione del canto non l’ho persa neanche lì nella baracca. Il primo Natale cantai per i miei compagni l’Ave Maria di Schubert. Mi ascoltò un sottotenente austriaco: “Herren Bergonzi può farla di nuovo per mia madre?”. Come ricompensa ebbi del pane nero e un paio di zoccoli olandesi; i miei geloni l’avevano impietosito».
Vivido il ricordo della liberazione. Quel 3 settembre del ’45 m cui da Rostock, in Prussia, riprese la strada di casa in tasca la canzone scritta por la mamma che pensava non avrebbe rivisto; l’avrebbe incisa solo nel 1967 nell’unico disco "leggero”. «Avevo il tifo. Feci finta di star bene per evitare la quarantena», ricorda. «Mi misi in fila con una coperta addosso; con la tradotta arrivai a Rostov, in Russia, e da lì con mezzi di fortuna fino a Pescantina. Era la prima sera che accendevano le luci a Busseto, la mia futura moglie era lì sulla porta. “Ciao Adele!”, le gridai. Mia madre non mi riconobbe, pesavo 36 chili».
«Son 63 anni di matrimonio», esclama la signora Adele. Ora anche lei si commuove. Chi avrebbe immaginato che quel soldato allo stremo avrebbe avuto i polmoni per aggredire Verdi? Potenza della lirica. «Ero gelosa di tutte, sa?», confessa. «Ce n’erano in giro di puttanelle, scusi eh. Mica vero che le signore del bel canto erano tutte brutte. Pensi alla Moffo, alla Antonietta Stella, alla Kabaivanska».
Il salotto è sovraccarico di oggetti che la signora Adele ha collezionato in giro per il mondo, argenti, ceramiche, acquerelli, oli. «Per noi New York era casa. Che gioia quando ritornavamo nel nostro appartamento all’hotel Navarro, all’Essex House o all’Helmsley, dove c’era anche Luciano (Pavarotti). Scendeva giù da noi col suo pasto dietetico poi sentiva profumo di risotto e lo buttava via. L’ultima volta che ci siamo incontrati è stato proprio a New York, lui già malato. Ha mandato via dottori e infermieri per parlarmi e rivangare i bei vecchi tempi. Anche qualche confidenza che è meglio resti tale».
La signora Adele spalanca la porta finestra che affaccia verso San Siro. «I giovani amano il rock, dell’opera se ne fregano», sospira il maestro. «Schifo! Schifo! Schifo! Quando è venuto Vasco Rossi si sentiva fin qua. Me lo chiama cantare quello?», sbotta lei. «Ormai c’è da vergognarsi anche ad andare a teatro. Ti trovi l’Aida vestita da cameriera e il Rigoletto che sbuca fuori in motocicletta». Bergonzi, il gigante della lirica, sembra aver cancellato con i ricordi tutti i malanni. La sua voce tuona come quella di Radamès: «Verdi non si tocca!».