Marco Cicala, il Venerdì 5/7/2013, 5 luglio 2013
GIOVENTÙ OBBLIGATA
[Intervista a Francesco De Gregori] –
ROMA. Mese più mese meno, Mick Jagger ha la stessa età di Mario Monti o del cardinal Bagnasco, settanta; Iggy Pop di Ignazio La Russa o Luca Cordero di Montezemolo, sessantasei; Lou Reed di Monsignor Ravasi o Vittorio Cecchi Gori, settantuno. Eppure guardateli sul palco, o ascoltateli nelle interviste. Destano un’emozione torbida, all’incrocio tra ammirazione e raccapriccio. Perché appartengono alla categoria professionale, le popstar, che forse più di tutte è inchiodata a una condanna – decidete voi se deliziosa o infame: quella della giovinezza a lunga conservazione. A cominciare dall’involucro. Bluse di cuoio, t-shirt variamente aderenti, jeans slavati. Gli ancestrali paramenti del rock. «Io non mi sono mai particolarmente vestito da ragazzino, quindi il problema non ce l’ho. Ma sono costumi di scena. Eccentricità. Gli artisti si vestono sempre un po’ come gli pare» sdrammatizza Francesco De Gregori, classe 1951. Stiamo in un chioschetto a bordo Tevere, zona Prati/Delle Vittorie, a un soffio da casa sua. Oggi lui non porta cappello, ma occhiali scuri, maglietta blu, scarpe da tennis blu e jeans (non slavati). Fuma Gauloises senza filtro, con la solenne intensità di chi pasteggia un modesto paradiso ritrovato: «Avevo smesso. Per 20 anni. Ho ripreso durante l’ultimo tour con Lucio Dalla. Accanto a lui era impossibile evitare la sigaretta. Fumava ovunque. Anche in chiesa». Dalla non c’è più, ma da quel giro di concerti che ammiccavano ironicamente alle scorribande dell’epoca Banana Republic (1979) – De Gregori dice di essere tornato diverso. Pacificato.
«Vivo una fase di nuova felicità artistica». Non solo: adesso carbonizza pure 40 gauloises al giorno. E si ributta Sulla strada. Che è il titolo dell’ultimo album e della tournée che riparte il 10 luglio dal Parco della musica di Roma.
On the Road. Again. Ancora? A 62 anni non s’è stufato?
«No, mi diverte»
Fisicamente non le pesa.
«Odd’io, dopo due mesi in macchina, il pensiero di tornare nel tuo letto è affascinante. Ma non è un lavoro distruttivo come fare il pescatore».
Orrore del domicilio fisso?
«A casa sto bene... Però dopo 48 ore senza chitarra mi sembra di essere uno che non fa niente di buono nella vita».
Eppure, tempo addietro, demistificava l’epica dei tour: «Sono di una banalità abissale».
«Perché la gente se li immagina come quelli americani. Grandi traversate, incontri incredibili... Ma alla lunga anche se ogni sera hai davanti un pubblico diverso e cerchi di fare qualcosa di artistico diventa abbastanza routinario. Eppoi l’aspetto eroico dei tour decade se pensi alle distanze italiane. Ti sposti di tre, quattrocento chilometri. Mangi all’Autogrill...».
On the Road. Ci risiamo col giovanilismo di ritorno?
«Nell’album, Kerouac non c’è. Del resto, ho letto Sulla strada per la prima volta a sessantenni».
Come l’ha trovato? Magari è molto meglio di come ce l’ha raccontato la vulgata generazionale...
«In effetti, spogliato del suo manto eversivo, è un libro epico sulla ricerca di sé, del padre».
Torniamo ai vegliardi del rock: un po’ di spavento lo fanno.
«Iltema dell’età degli artisti è delicato. Perché il mondo della musica è sempre molto giovane. O si pensa che sia cosi. Ma è anche vero che – a differenza del calciatore o del pilota di Formula Uno – questo è un mestiere che si può fare a qualsiasi età. Chiaro: se devi zompare sul palco come Mick Jagger, la faccenda può diventare complicata. Però dipende. Uno come Leonard Cohen è sempre stato un palo davanti al microfono, e continua a fare il palo senza perdere nulla del suo fascino».
E lei?
«In scena mi muovo più oggi che trent’anni fa».
Ma perché i rockers restano ingabbiati più degli altri nella maledizione del Forever Young?
«Perche il rock nasce come musica giovane. Ma nel ’67, i Beatles cantavano When l’m Sixty-Four, Quando avrò sessantaquattro anni. Avevano già capito tutto».
Verissimo. Era magnifica. E fu sottovalutata. Diceva all’incirca (scippo la traduzione da internet): Quando diventerò vecchio e perderò i capelli/(...) mi manderai ancora una lettera per San Valentino/una bottiglia di vino con gli auguri di compleanno?/Se stessi fuori fino alle tre meno un quarto chiuderesti la porta a chiave?/Avrai ancora bisogno di me/mi preparerai ancora da mangiare quando avrò sessantaquattro anni?/Anche tu sarai invecchiata e se solo dirai una parola potrei restare con te. L’aveva scritta Paul McCartney, che oggi ha l’aspetto di una favolosa prugna sciroppata. Ma trascina ancora 13 mila persone all’Arena di Verona. Buttale via.
Mentre qual è oggi è il pubblico dei concerti di De Gregori?
«Molto variato. Miei coetanei, giovani, giovanissimi».
Dei coetanei ha detto: «Mi chiedono le vecchie canzoni perché vogliono che invecchi con loro, invece non voglio invecchiare con loro». In che senso?
«Molti mi collegano solo ai miei pezzi famosi, Buonanotte fiorellino o La donna cannone... Come se quello che ho fatto dopo non contasse. E una porzione di pubblico talebano. Sono rimasti a quelle canzoni e poi hanno smesso di amare la musica non solo la mia, la musica in generale e vorrebbero inchiodarmi a quei brani. Io quando salgo sul palco non mi sento vecchio, ma contemporaneo. Anche se rifaccio i vecchi brani, li ripropongo in modo diverso. E pure quando non li rifaccio, non è che la gente fischi o se ne vada vomitando...».
In uno dei (più bei) pezzi del disco, Guarda che non sono io, prova a smarcarsi dal feticismo dei fan, dicendo: guarda che non ho risposte, sono solo uno con le buste della spesa in mano che cerca di scappare a casa perché piove. Negli anni «eroic», il cantautore fu scambiato per una specie di poeta veggente?
«Quantomeno per un punto di riferimento extra-scolastico».
Perché i critici di estrema sinistra la accusarono di scrivere canzoni ermetiche? Che volevano, realismo socialista?
«Boh. Erano attacchi intellettualistici. Forse spiazzava il fatto che certi meccanismi poetici finissero a Un disco per l’estate. Spiazzava che stessi sul confine. Che cantassi Buonanotte fiorellino ma anche cose politiche tipo Pablo».
Ha sempre detto: «Non sono un rivoluzionario».
«Non ho un’indole rivoluzionaria».
È vero che si vergognava dei riccioli e se li faceva spianare dal barbiere?
«Si. Invidiavo i capelli lisci di De Andrè. Ma poi la capigliatura di Dylan mi riconciliò con me stesso».
Mentre i capelli aggiunti di Dalla? Lui come lo viveva l’invecchiamento?
«Non credo si sentisse vecchio. Forse non si è mai sentito nemmeno giovane perché fin da ragazzino frequentava musicisti più grandi di lui. Ma questo è un mestiere che non ha età. Anche se non posso più fare le cose che facevo a vent’anni, sono contento dell’età che ho. Non vivo nel rimpianto. Eppoi non stai sempre a pensare all’età che hai. È come la pelle, la barba, la casa della chiocciola. Sentirsi giovani o vecchi prescinde dall’anagrafe. Io mi sono sentito molto vecchio quando avevo vent’anni...».
Secondo lei ha ragione chi sostiene che la famosa Sinistra non attrae più i famosi Giovani perché non incarna più il cambiamento ma rappresenta, alla fine, un blocco di conservazione?
«Potrebbe avere ragione. Ma bisognerebbe chiederlo a un giovane. Mi sembra però che la Sinistra non venga più percepita come portatrice di modernità».
A proposito: internet continua a far molto male alle vendite dei dischi. Lei in che rapporti è con il computer?
«Lo uso. Ma ai margini della sua vera potenzialità. Come un elettrodomestico».
Come scrive?
«Le idee le butto giù a penna. Poi le batto a macchina. Infine al computer».
È un lettore onnivoro. Quali giganti non ha mai letto?
«I russi. E la Recherche di Proust».
I comici continuano a renderla triste?
«La comicità non è la mia tazza di tè. Al pur bravo Crozza, preferisco Checco Zalone. A non piacermi è in realtà l’uso che la televisione fa dei comici. E l’uso che i comici fanno dell’attualità, della politica. Mi pare che la semplifichino e in qualche modo la tradiscano».
I suoi proverbiali cappelli: li prende a nolo?
«Macché, sono miei. Quello da marinaio che si vede sulla copertina del disco l’ho preso in Grecia. Ma il mio preferito è quello che portava Gene Hackman nel Braccio violento della legge. Un Pork Pie Hat: cappello-a-pasticcio-di-carne-di-maiale».
In fatto di copricapi, ha un pusher?
«Viganò».
Ai non romani va spiegato. Viganò era il più bel negozio della capitale, una spelonca di capi elegantissimi, carissimi, inglesissimi e pure un po’ fané. Ora sta chiudendo. Perché i discendenti non vogliono rilevarlo. I vecchi e i giovani.