Uri Dadush, l’Espresso 5/7/2013, 5 luglio 2013
SE SI ARRABBIANO GLI EMERGENTI
Le dispute commerciali tra la Ue e la Cina sui pannelli solari e sul vino francese, lo scoppio occasionale delle cosiddette "guerre valutarie" e il fallimento dei negoziati multilaterali sul commercio sono alcuni dei segni più evidenti della tensione crescente tra certi giganti emergenti e le tradizionali potenze commerciali. A ciò si aggiunge ora un recente e importante cambiamento nella politica commerciale dei paesi avanzati che potrebbe peggiorare la situazione. La strategia degli Stati Uniti, che possono essere considerati gli autori dell’architettura commerciale della postguerra, in questo campo è consistita fino a poco tempo fa nel portare avanti da una parte delle trattative commerciali complessive – l’Agenda per lo sviluppo di Doha – che coinvolgessero tutti i membri dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e, dall’altra, parallelamente, la sigla di un certo numero di accordi commerciali bilaterali di importanza secondaria. Oggi Washington ha deciso nella sostanza di abbandonare la ronda di Doha e mira invece a concludere due mega accordi regionali.
L’importanza del primo, il Trans-Pacific Partnership (Tpp), che coinvolgerebbe 12 paesi che si affacciano sulle sponde del Pacifico, è stata notevolmente rafforzata di recente grazie all’arrivo di Canada, Giappone e Messico come nuovi membri. Il secondo, il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), vede come partner la Ue. Quest’ultima, che costituisce il blocco commerciale di maggior peso del mondo, ha imboccato una strada simile a quella degli Stati Uniti. In altre parole, ha lasciato passare in secondo piano l’approccio multilaterale, facendo al tempo stesso pressione per fare approvare il Ttip e portare a casa una serie di altri negoziati di tipo bilaterale.
È INNEGABILE che i mega negoziati regionali abbiano degli obiettivi nobili: mirano, innanzitutto, a consolidare le alleanze che gli Stati Uniti, l’Unione Europea, il Giappone e altri paesi minori che condividono gli stessi interessi e valori quanto a sicurezza, promozione della democrazia e diversi altri aspetti. Soprattutto, però, hanno come obiettivo la firma di accordi commerciali aggiornati ai tempi: "da XXI secolo", come sono soliti essere descritti i negoziati bilaterali che coinvolgono gli Stati Uniti o l’Europa. Sono negoziati che aspirano ad abolire i dazi, a consentire liberi investimenti diretti negli altri paesi, a rendere più competitivi gli Stati coinvolti, ad allentare le molte normative e discipline che governano il commercio e la proprietà intellettuale e, infine, ad armonizzare e razionalizzare le normative nazionali in una serie di settori che vanno dalla concorrenza all’efficacia delle iniziative commerciali nazionali. Quando ha successo, questo tipo di negoziato fornisce una piattaforma sulla base della quale è possibile stabilire standard globali per un infinito numero di settori, dalla sicurezza delle automobili al risparmio energetico, dalle emissioni di gas serra alla rendicontazione e alla normativa in materia di assicurazioni, sanitaria, dei brevetti o di leggi sul copyright. Gli accordi commerciali bilaterali che seguono la nuova strategia potrebbero inoltre aprire la strada a un’ondata di liberalizzazioni nei paesi che non volessero restare esclusi o in altri che mirassero a sfruttare le nuove opportunità offerte da mercati con un maggior grado di integrazione.
Questa strategia produce dei benefici, tanti benefici: perché affannarsi dunque per concludere nuovi mega accordi regionali? Un primo serio dubbio riguarda la fattibilità di questi negoziati e il sostegno politico su cui essi potrebbero contare, quand’anche le lobby di affari abbiano già espresso il loro interesse. Nonostante gli annunci di date ravvicinate in cui dovrebbero essere siglati, nei fatti non c’è alcuna certezza su quando – se mai – questi accordi saranno conclusi. Le risultanti liberalizzazioni sarebbero inoltre più modeste di quanto suggerito da previsioni entusiastiche. Dopotutto, il commercio nel Pacifico e nell’Atlantico fluisce già alquanto liberamente e laddove ciò non avviene la causa è generalmente la resistenza offerta da interessi speciali che si dimostra insormontabile.
I PUNTI DEL TPP E DEL TTIP sui quali non c’è accordo sono gli stessi che hanno alle spalle una lunga e ben documentata storia di frizioni e dispute. Tanto per citarne qualcuno, tra gli Stati Uniti e la Ue alcuni disaccordi sono stati il benessere degli animali, le leggi sulla privacy, gli appalti per la difesa, i sussidi all’industria aerea e la presenza di Ogm nel cibo. Nel campo dell’agricoltura, la forza irresistibile dei potenti interessi che stanno dietro all’export americano non può non scontrarsi con gli ostacoli inamovibili frapposti dalle Politiche agricole comuni della Ue e dal settore agricolo rappresentato dall’elettorato del Partito liberal-democratico giapponese.
RIDURRE LE TARIFFE DOGANALI si dimostrerà più difficile del previsto. Le alte tariffe che si pagano per il tessile e l’abbigliamento, l’acciaio, gli autocarri, lo zucchero e il cotone sono rimaste in vigore per tanto tempo perché spalleggiate da potenti gruppi di interesse. Cambiare le normative che ostacolano il commercio sarà anche più arduo che negoziare i dazi. Sono normative ad alto contenuto tecnico stilate per proteggere la salute, l’ambiente la sicurezza. I dazi sono apertamente protezionistici, le normative sono più ambigue. Le modifiche alle normative dovrebbero essere approvate nel dettaglio dall’Agenzia o dall’Istituto pertinente e potrebbero condurre a differenze di opinioni degli esperti sugli effetti delle modifiche in questione.
I negoziatori – che siano americani, europei o di altri paesi – sanno soprattutto che andrebbe incontro a divergenze e divisioni nelle singole nazioni. Per esempio, il Congresso americano si sta dimostrando più incapace che mai in passato di risolvere le differenze politiche ed è riluttante a chiedere al governo il permesso di sottoporre gli accordi commerciali alla cosiddetta "procedura veloce", vale a dire a un voto positivo o negativo. In Europa, le tradizionali discordanze si sono acuite a causa della crisi cronica dell’euro. L’ipercompetitiva Germania sarebbe entusiasta di siglare questo tipo di accordi, mentre altri paesi, quali la Spagna con il suo quarto della popolazione disoccupato o l’Italia con la sua struttura industriale sotto stress, non saranno disponibili a fare concessioni in un momento tanto delicato. La Francia ha già minacciato di bloccare i negoziati se includessero la liberalizzazione dei beni e dei servizi di tipo culturale.
UNA SECONDA FONTE di preoccupazione è l’esclusione da questi trattati delle potenze emergenti. Il Tpp e il Ttip insieme rappresenterebbero 39 paesi, ovvero il 60 per cento dell’odierno commercio mondiale, ma escluderebbero tutti i Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica e altre economie giganti quale l’Indonesia – economie che si prevede saranno le potenze commerciali con la prossima generazione. La Cina è il maggior paese esportatore del mondo, assorbe un 10 per cento circa di tutto l’import mondiale e costituisce già il più grande mercato per le esportazioni di tutti i paesi del Tpp ad eccezione del Vietnam e dei due partner degli Stati Uniti nel Nafta, Canada e Messico. La Cina e altri importanti paesi in via di sviluppo che resterebbero tagliati fuori dagli accordi non vedrebbero di buon occhio l’esclusione dal principale canale di riforma del commercio globale.
Inoltre, escludendo le potenze emergenti, non sarebbero affrontati alcuni dei più grandi ostacoli al commercio mondiale. Non sono gli Stati Uniti, la Ue o il Giappone a imporre i dazi più alti e stando alle attuali normative nessuno di questi tre paesi è libero di alzarli a piacimento. Le distinzioni si applicano piuttosto alle economie in via di sviluppo, quali India, Brasile e Sudafrica. Inoltre, i mega accordi regionali non contemplerebbero certe questioni critiche quali i sussidi agricoli praticati soprattutto dai paesi avanzati.
In terzo luogo, preoccupa la marginalizzazione del Wto. In ultima analisi, il tentativo di concludere i due mega accordi regionali – ovvero accordi che riguarderebbero una quota pesante del Pil mondiale – rischia di far passare in secondo piano qualsiasi iniziativa di liberalizzazione che parta da Ginevra e di ridurre gli incentivi a negoziare in questo foro. I nuovi mega negoziati sono già così estesi che assomigliano per scala e ambizione le ronde per il commercio multilaterale piuttosto che un tradizionale accordo regionale. Difatti, combinati, il Tpp e il Ttip assomigliano di più ai primi Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) degli anni Cinquanta e Sessanta, nei quali prevalevano i paesi avanzati e in particolare gli Stati Uniti e un pugno di paesi europei.
La nuova politica commerciale degli Stati Uniti e dell’Europa è coraggiosa e si pone obiettivi nobili, ma può avere successo soltanto se non marginalizza il Wto e se non suscita resistenze nei paesi in via di sviluppo.
Se la nuova strategia americana ed europea fosse percepita come un tentativo di risuscitare una sorta di sistema Gatt con alla guida i paesi avanzati, non farebbe che approfondire le divisioni tra i paesi avanzati quelli in via di sviluppo, che sono oggi fonte di tante frizioni e per buona parte causa dell’abbandono di Doha.