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 2013  maggio 28 Martedì calendario

LA NARRATIVA DELLA GESTIONE DELLA CRISI

[In allegato la versione originale in PDF] –
Negli ultimi tre anni la gestione della crisi nella zona euro si è evoluta parallelamente alla crisi stessa. Tuttavia un tema chiave di fondo è rimasto sempre presente: prima di compiere ulteriori passi avanti verso un’integrazione che comporterebbe una significativa condivisione dei rischi, i problemi nazionali dei paesi della zona euro vanno affrontati a livello nazionale.
[...] La Germania ha sempre gestito la crisi con una prospettiva inter-temporale. Alla base c’è l’idea che più gli oneri sono condisi ex ante, più è improbabile che ex post siano fatte le necessarie correzioni. Ma perché sia applicato il loro approccio alla crisi, i tedeschi hanno bisogno di adeguati scudi di liquidità per gestire lo stress dei mercati. Inizialmente lo stress era stato affrontato costruendo “ospedali di liquidità” su base fiscale per i titoli sovrani, i fondi Efsf ed Esm, accompagnati dal supporto della Bce per le banche. Questo approccio è diventato problematico quando, nel 2011, lo stress dei mercati si è spostato su Spagna e Italia, paesi troppo grandi per essere sistemati nei normali ospedali di liquidità. L’Omt può essere visto come la soluzione a questo problema. Diventata il prestatore di ultima istanza per i titoli sovrani, la Bce ha rimosso il vincolo di capacità degli scudi di liquidità, così da assicurare che i titoli sovrani siano sempre acquistati. L’Omt ha permesso alla Germania di andare avanti con il suo approccio alla crisi preferito.
Nei primi giorni della crisi, si pensava che questi problemi nazionali fossero soprattutto economici: troppi debiti di stati, banche e famiglie, un disallineamento tra i tassi reali di cambio, rigidità strutturali. Ma con il passare del tempo è diventato chiaro che c’erano anche problemi nazionali di natura politica. Le costituzioni e le istituzioni politiche nella periferia meridionale, nati in seguito alla caduta del fascismo, hanno una serie di caratteristiche che le fanno sembrare inadatte a una maggiore integrazione dell’area euro. Quando i politici tedeschi parlano di un processo decennale di aggiustamento, probabilmente hanno in mente sia le esigenze economiche che quelle politiche.
Il metodo di gestione della crisi ha avuto un enorme impatto sullo scenario macro. Un maggiore peso fiscale a livello nazionale ha appesantito la crescita dell’intera area e ha generato un significativo grado di dispersione intra-regionale. Ha anche aumentato le tensioni politiche nella regione. Una questione cruciale è se il contesto macroeconomico può migliorare anche senza cambiamenti del metodo di gestione della crisi.
Noi crediamo che possa, ma solo fino a un certo punto.
Sarà decisivo il comportamento della Bce. Negli ultimi mesi, la Bce ha tollerato una maggiore debolezza economica e uno scenario di inflazione ridotta, oltre a problemi sempre più persistenti sul problema della trasmissione nelle periferie. Più la risposta della Bce sarà limitata, più il percorso di aggiustamento dei paesi sarà duro. Una risposta più decisa da parte della Bce renderebbe il percorso di aggiustamento molto più facile.

L’idea del viaggio
L’esigenza che i problemi nazionali siano affrontati a livello nazionale crea l’immagine dei viaggi. Qualcuno di questi viaggi riguarda problemi che si sono sviluppati nel primo decennio dell’Unione monetaria, mentre altri riguardano paesi che stanno raggiungendo destinazioni del tutto nuove. Con questa idea in mente, la domanda ovvia è: “A che punto siamo, in questi viaggi?”. Tutto sommato, diremmo che in media l’area dell’euro è circa a metà strada nel viaggio dell’aggiustamento dei problemi nazionali.

Il viaggio della riduzione del debito degli Stati
È abbastanza facile individuare il viaggio per gli Stati perché il fiscal compact definisce due obiettivi fiscali di medio termine. Per i Paesi con un debito superiore al 60% del Pil la richiesta è creare un surplus primario che riduca il loro debito al 60% in vent’anni, per gli altri l’obiettivo fiscale è non avere un deficit strutturale superiore allo 0,5%.
Germania, Lussemburgo ed Estonia sono gli unici paesi dell’area che rispettano entrambi gli obiettivi fiscali. Tra i paesi periferici, l’Italia è quella più avanti nel viaggio, che ha completato al 75%. Le altre nazioni periferiche, inclusa la Francia, in generale hanno completato meno della metà del viaggio. Il resto dell’area è a circa metà del percorso.
[...] Questo non significa che nei prossimi anni la crescita sarà debole come negli ultimi tempi. Al di là del ruolo dello stress finanziario nel creare un diffuso stato di debolezza economica, il ritmo dell’aggiustamento fiscale tenderà a rallentare quanto più l’Europa sposterà la sua attenzione verso l’esigenza di generare crescita e ridurre la disoccupazione. Ma questo significa anche che l’austerità fiscale resterà probabilmente uno dei protagonisti dello scenario macro dell’area dell’euro per un periodo molto lungo.

Il viaggio dell’aggiustamento competitivo
Abbiamo definito il viaggio per la competitività partendo dal presupposto che i tassi reali di cambio all’interno della regione debbano tornare attorno ai livelli ai quali si trovavano nel momento della nascita dell’euro. Questo significa essenzialmente che le rivalutazioni apparse nella prima decade della moneta unica devono emergere completamente. È possibile che questo obiettivo non sia sufficientemente ambizioso, perché può essere che i tassi reali di cambio fossero già disallineati alla nascita dell’euro. Ma questa è comunque una metrica ragionevole per fissare il punto di partenza.
Con l’eccezione dell’Italia, dove non sono stati fatti progressi, ci sono state significative svalutazioni nel resto della periferia, con nazioni che hanno completato il 70-100% del viaggio necessario. La debolezza della domanda che ha aiutato a deprimere i tassi reali di cambio ha anche aiutato a ridurre gli squilibri del saldo commerciale. Qui definiamo il viaggio in termini di raggiungimento di un attivo nel saldo corrente. Su questa base, nella periferia sono stati fatti progressi significativi.
Tuttavia, è possibile che questo obiettivo non sia abbastanza ambizioso: è possibile cioè che alcuni di questi paesi abbiano bisogno di generare un attivo nelle loro partite correnti per fare emergere del tutto il notevole accumulo di passività esterne che si è verificato durante il periodo in cui chiudevano gli anni con grandi deficit. [...]

Il viaggio della riduzione del debito delle famiglie
La pressione verso una riduzione dei debiti delle famiglie non è uniforme all’interno dell’area del’euro. È concentrata in paesi specifici, come la Spagna e l’Irlanda. Per esempio, in Spagna nel 2002 il debito delle famiglie in percentuale sul loro reddito disponibile era in linea con la media dell’area euro, al 77%. Nel momento di picco, cioè nel 2007, il debito delle famiglie spagnole era salito al 131% del loro reddito, mentre quello medio dell’area euro si era portato solo al 95%. Sei anni dopo il debito delle famiglie spagnole è sceso fino al 124%, mentre quello dell’intera area euro è salito al 100%.
Definire un viaggio per la riduzione dei debiti delle famiglie è difficile perché non c’è un modo sicuro individuare un livello equilibrato di indebitamento. Dato che nel suo complesso l’eurozona non ha sperimentato un boom immobiliare e nemmeno un massiccio allargamento del debito delle famiglie, sembra ragionevole definire il viaggio sulla base di come le famiglie spagnole stanno riducendo il loro rapporto debito-reddito per riportarlo in linea con la media della regione. Questo comporterebbe una discesa fino a circa il 100%. Se prendiamo questo come obiettivo, le famiglie spagnole hanno completato solo il 25% del loro viaggio.
Ma in termini di impatto della riduzione della leva finanziaria delle famiglie sulla crescita economica, è più appropriato considerare il livello del loro surplus finanziario. Se consideriamo il viaggio delle famiglie spagnole negli stessi termini che applichiamo ai titoli sovrani, e quindi guardiamo a quale surplus finanziario occorre per mettere il debito su di un percorso di discesa, allora le famiglie hanno fatto progressi molto maggiori. L’anno scorso il surplus finanziario delle famiglie spagnole è stato pari all’1,3% del debito disponibile. Qualche semplice simulazione mostra che un surplus finanziario annuo dell’1,5% ridurrebbe il debito al 100% entro un decennio. Questo suggerisce che, se da un lato la riduzione dell’indebitamento delle famiglie rimarrà uno dei protagonisti dello scenario macro iberico per i prossimi anni, il flusso di aggiustamento richiesto alle famiglie spagnole è molto modesto [...].

Il viaggio della riduzione del debito delle banche
Definire un viaggio per le banche e misurare a che punto siamo in questo viaggio è molto difficile. Possiamo usare gli obiettivi fissati dai regolatori per i coefficienti di capitale, di indebitamento e dei depositi. [...]
A livello di intera eurozona, il debito delle banche è caduto in maniera significativa negli ultimi anni, dal picco del 18,6 del 2008 agli attuali 14. La media delle nazioni del Nord dell’area euro, il coefficiente di indebitamento è caduto di soli 3 punti dai suoi massimi pre-crisi. In Italia e Spagna l’aggiustamento è stato maggiore, in Irlanda e Grecia è stato anche più grande. In generale, il dato aggregato riportato dalla Bce suggerisce che le banche potrebbero raggiungere facilmente i coefficienti di indebitamento richiesti.
Nello stesso tempo, i dati aggregati della Bce suggeriscono anche che è stato fatto un progresso importante verso fonti di finanziamento più stabili, ma in questo caso lo scenario è meno uniforme. Tra le nazioni del Nord dell’area euro, esclusa la Finlandia, il rapporto tra prestiti e depositi è crollato vistosamente. Ma i dati aggregati per la Francia e l’Olanda rimangono superiori al 100-120% indicato dai regolatori. Altrove le riduzioni nel rapporto tra prestiti e depositi sono state più decise, con l’eccezione della Grecia che ha subito una sostanziale fuga di depositi. Ma anche dopo marcati cali dai loro massimi, il rapporto prestiti-depositi rimane di molto oltre il 120% in Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda. Per qualcuno di questi paesi il quadro è un po’ fuorviante a causa della popolarità dei bond venduti ai clienti bancari, operazioni che non sono incluse nel rapporto tra prestiti e depositi, ma che secondo noi dovrebbero esserlo.

Il viaggio delle riforme strutturali
[...] Guardando a un gran numero di indicatori, l’Olanda emerge come l’economia europea in miglior forma, dal punto di vista strutturale, incalzata da Irlanda e Finlandia. In fondo alla classifica si trovano Portogallo, Italia e Grecia. La Germania è nella prima metà mentre la Francia è nella seconda. Il confronto non specifica esattamente che cosa c’è bisogno di fare. Mostra semplicemente quali paesi devono fare di più. Considerata la complessità delle istituzioni del mercato del lavoro e della produzione, le riforme strutturali devono essere fatte su misura per situazioni specifiche. E fare questa comparazione non ci dice nemmeno dove siamo attualmente. [...] Individuare dove siamo è difficilissimo a causa della complessità delle riforme. Abbiamo tentato di rispondere a questa questione specificatamente per l’Italia.
Durante il 2012, il governo Monti ha introdotto liberalizzazioni del mercato su un’ampia gamma di settori, compresi l’energia, i trasporti, i servizi professionali. Lo scopo delle riforme era ridurre le tariffe e incrementare la flessibilità. Ha anche introdotto riforme del mercato del lavoro per ridurre i costi di licenziamento, promuovere l’apprendistato, decentralizzare gli accordi salariali, liberalizzare i servizi di collocamento.
Non è facile stimare che impatto avranno queste riforme sui diversi indicatori strutturali a disposizione. Un modo per farlo è utilizzare le stime del Tesoro italiano su come queste riforme hanno inciso sugli indicatori Ocse: secondo il ministero la riforma del mercato del lavoro del 2012 ha ridotto di 0,3 punti l’indice Ocse sulle leggi per la tutela del lavoro, mentre le liberalizzazioni hanno ridotto di 0,1 punti l’indice Ocse di protezione dei mercati (ridurre questi indicatori significa rendere più aperti i mercati e meno restrittive le leggi sul lavoro).
Possiamo usare queste stime, assieme a qualche regressione bivariata, per stimare come le riforme del 2012 abbiamo influito sugli indici del Fraser Institute, che misurano anche la struttura legale. Non possiamo fare lo stesso con i dati dell’indagine “Doing Business” della Banca mondiale, perché non abbiamo dati a sufficienza. [...] Non sorprendentemente, tutti questi indicatori dicono che le riforme del 2012 hanno migliorato la struttura dell’economia italiana.
Per valutare l’intensità del miglioramento, possiamo calcolare dove si troverebbe l’Italia in queste classifiche dopo le riforme del 2012, partendo dall’ipotesi che gli altri Stati siano rimasti fermi. La posizione dell’Italia nella classifica del Fraser Institute sarebbe migliorata dal 72esimo al 56esimo posto. Se confrontiamo il valore dell’indice stimato per l’Italia con il migliore dell’area, che è l’Irlanda, allora potremmo dire che l’Italia ha fatto ragionevoli passi avanti verso i migliori esempi dell’area euro.
Questa analisi suggerisce che le riforme del 2012 rappresentano un progresso, ma c’è ancora da lavorare. Tuttavia, soprattutto per l’Italia, migliorare le condizioni strutturale dell’economia non consiste solo nel riformare le leggi. Si tratta anche di cambiare la burocrazia e il sistema giudiziario.
Questo è evidente se si guarda al rapporto tra misure strutturali quantitative, come gli indicatori Ocse sulle tutele dei lavoratori e le aperture dei mercati, e le percezioni degli uomini d’affari. Secondo l’Ocse l’Italia non è lontana dalla media europea. Ma gli indici del World Economic Forum mostrano che la percezione dell’apertura dei mercati e delle protezioni dei lavoratori è molto peggiore. Questo suggerisce che il problema sta tanto nelle leggi quanto nelle loro interpretazioni da parte del sistema burocratico e giudiziario.

Il viaggio della riforma politica nazionale
All’inizio della crisi, era generalmente supposto che i problemi nazionali fossero di natura economica. Ma con l’evoluzione della crisi è diventato evidente che nella periferia dell’area euro ci sono problemi politici consolidati che, secondo noi, devono cambiare se l’Unione monetaria deve funzionare correttamente nel lungo termine.
I sistemi politici nella periferia sono stati istituiti all’indomani di una dittatura e sono stati caratterizzati da quell’esperienza. Le Costituzioni tendono ad avere una forte influenza socialista, che riflette la forza politica guadagnata dai partiti di sinistra dopo la morte del fascismo. I sistemi politici nella periferia dell’euro mostrano tipicamente le seguenti caratteristiche: governi deboli, stati centrali deboli rispetto alle regioni, protezione costituzionale dei diritti dei lavoratori, sistemi di consenso che favoriscono il clientelismo politico, il diritto di protestare se vengono introdotti dei cambiamenti non benvenuti allo status quo politico. Le conseguenze di questa eredità politica si sono rivelate con la crisi. Le nazioni della periferia hanno avuto successi solo parziali nel produrre agende di riforma fiscale e economica, con i governi vincolati dalle costituzioni (Portogallo), da potenti regioni (Spagna) e dalla crescita di momenti politici populisti (Italia e Grecia).
C’è un crescente riconoscimento dell’entità di questo problema, sia nel cuore che nella periferia dell’Europa. Si vedono i primi cambiamenti. La Spagna ha fatto passi avanti nell’affrontare alcune delle contraddizioni dell’impostazione nazionale post-franchista con la legge che lo scorso anno ha introdotto un controllo più severo sulle regioni. Ma fuori dalla Spagna al momento si è visto poco.
Il test cruciale l’anno prossimo sarà in Italia, dove il nuovo governo ha chiaramente l’opportunità di impegnarsi in riforme politiche significative. Ma se pensiamo all’idea di viaggio, il processo di riforma politica è a malapena iniziato.

Le conseguenze macro della gestione della crisi
La narrativa che abbiamo illustrato - problemi nazionali preesistenti devono essere affrontati a livello nazionale prima che si possano fare passi avanti che comportino una maggiore condivisione dei rischi e degli oneri - ha avuto un enorme impatto sulla macro economia, creando una debolezza generale e una significativa divergenza.
Una valutazione ottimistica direbbe che la regione è solo a metà del suo viaggio di superamento di questi vecchi problemi. A prima vista, questo sarebbe molto deprimente. In termini macro, la regione non sarebbe in grado di fare fronte altri tre anni come gli ultimi. Ma aggiustamenti in corso non significa per forza recessione in corso. [...] Nessuno dei motori della crescita è diventato così negativo da spiegare il forte peggioramento del ritmo di crescita, così non ci resta che concludere che la prima causa del ritorno alla recessione è stato l’inasprimento delle condizioni finanziarie iniziato a metà 2011. Presumibilmente, il declino del clima delle famiglie e delle imprese era anche il prodotto di un drammatico peggioramento dello stress finanziario.
Passando a quest’anno, stanno emergendo numerosi fattori contrari: austerità fiscale, cattive condizioni del commercio, le difficoltà globali. Bisogna dare un giudizio cruciale sull’entità dei venti contrari. La nostra stima non vede cambi rilevanti per quanto riguarda quest’anno.
[...] Anche se anticipamo un’uscita dalla recessione, i sostanziali percorsi di aggiustamento che rimangono suggeriscono che la crescita è destinata a rimanere fiacca per un lungo periodo.
Questo difficilmente cambierà, a meno che l’area non vada più rapidamente verso una condivisione europea degli oneri (con l’unione bancaria che oggi è la forma più avanzata di questo sforzo) o che la Bce diventi molto più aggressiva. Al momento la strada verso l’unione bancaria è molto incerta. Molti premono per un accordo rapido su risoluzione, ricapitalizzazione e garanzie sui depositi per andare rapidamente verso un meccanismo unico di supervisione. Ma, in linea con il suo approccio alla gestione della crisi, la Germania sembra rallentare questo processo, sostenendo che per collocare la condivisione fiscale e degli oneri su una base fiscale bisogna modificare i trattati. Più chiarezza arriverà a giugno, dopo la riunione dell’Eurogruppo che si accorderà sull’uso dell’Esm come strumento per la ricapitalizzazione delle banche e dopo il summit dei leader europei che discuteranno del più generale viaggio verso una maggiore integrazione.
Per ora la Bce è incline a muoversi con molta cautela, riflettendo una visione pessimistica sul lato produttivo dell’economia e preoccupazioni riguardo l’azzardo morale.
[...] Comunque la crescita dovrebbe rialzarsi gradualmente verso l’1-1,5% annualizzato e rimanere in quell’area nel prossimo futuro. Questo basterà a stabilizzare la disoccupazione dell’area euro, ma non a farla scendere. Inoltre, anche quando ripartirà la crescita, la regione rimarrà probabilmente sensibile agli choc.
Una cruciale domanda finale è che cosa spingerà la Germania a concordare su una nuova narrativa, essenzialmente una maggiore condivisione dei rischi e degli oneri a livello regionale nella gestione della crisi. Nella nostra visione,ci sono due modi in cui questo potrebbe succedere: primo, con un significativo progresso negli aggiustamenti nazionali; secondo, se c’è una pressione politica e sociale irresistibile nella periferia.
[...] Nella nostra visione, non è probabile che la Germania accetti gli Eurobond senza un significativo cambio delle costituzioni nella periferia.
L’altro fattore che potrebbe innescare il passaggio a una nuova narrazione sarebbe un livello di instabilità sociale superiore alla soglia di non ritorno. Al momento appare improbabile, ma è possibile che la fatica delle riforme porti a: 1) il collasso di molti governi riformisti nel Sud, 2) collasso dell’appoggio per l’euro o l’Ue; 3) una definitiva vittoria elettorale di un partito radicale anti-europeo in qualche paese dell’area; 4) l’effettiva ingovernabilità di qualche stato membro una volta che i costi sociali (in particolare la disoccupazione) abbiano passato un certo livello.
Nessuna di queste evoluzioni oggi sembra probabile. Ma il quadro sul lungo termine (oltre i prossimi 18 mesi) è difficile da prevedere, e non si può nemmeno escludere un ritorno più pronunciato verso l’attuale metodo di gestione della crisi.