Corriere della Sera 5/7/2013, 5 luglio 2013
GUIDA DEL PARTITO E DEL GOVERNO LA TESI DEL SINDACO DI FIRENZE
Matteo Renzi in una delle sue ultime dichiarazioni ha detto chiaramente che chi si candida alle primarie per la segreteria del Pd, sia anche candidato premier a palazzo Chigi. Lei è d’accordo? A mio modesto parere credo che all’interno del Pd ci sia ancora parecchia maretta con i post comunisti. Per caso Renzi non ha in mente di sdoganarsi e creare un nuovo partito di centro di chiara ispirazione cattolica? Una sorta di nuova Dc tanto per intenderci.
Innocenzo Schiavone
Caro Schiavone,
Il tema è già stato trattato da Ernesto Galli della Loggia e Michele Salvati sul Corriere degli scorsi giorni. Aggiungo qualche altra considerazione.
Non so che cosa Renzi abbia in mente, ma il suo argomento — il leader del partito deve essere implicitamente il candidato alla presidenza del Consiglio — è la regola d’oro di molte fra le democrazie parlamentari di lingua inglese. In Italia, invece, è accaduto frequentemente che il segretario preferisse conservare il controllo della «casa» e lasciare a un collega il compito di andare al governo. Questa «originalità» italiana dimostrava che i partiti, per la classe politica nazionale, erano più importanti dei governi e che questi potevano essere congedati ogni qualvolta i segretari decidessero di cambiare il presidente del Consiglio o modificare gli equilibri di una coalizione.
La situazione accennò a cambiare con l’arrivo in campo di Silvio Berlusconi. Forza Italia gli apparteneva ed era naturale che la vittoria del partito aprisse al suo fondatore la porta di Palazzo Chigi. Qualcosa del genere accadde a sinistra con la nascita dell’Ulivo e la candidatura di Romano Prodi; e più recentemente nessuno ha negato a Bersani il diritto di aspirare a Palazzo Chigi. Ma il sistema politico italiano continua a essere privo delle caratteristiche che favoriscono altrove la coincidenza fra direzione del partito e candidatura alla presidenza del Consiglio.
Esiste una soglia di sbarramento, ma viene adattata alle esigenze delle coalizioni e non serve a diminuire il numero dei partiti in Parlamento. Non esiste, come in Germania e in Spagna, la sfiducia costruttiva che mette il Premier al riparo dalle imboscate parlamentari. Berlusconi ha cercato di ovviare a questi inconvenienti con l’indicazione del candidato Premier sulle liste elettorali. Ma la formula non sarà vincolante sino a quando il presidente della Repubblica continuerà a godere dell’autonomia che gli è garantita dalla Costituzione.
Ancora una volta Berlusconi ha cercato di aggirare l’ostacolo con una legge elettorale che garantisce al partito di maggioranza relativa, e quindi al suo leader, uno spropositato premio di maggioranza. Ma l’Italia ha altre anomalie che rendono questo obiettivo difficilmente realizzabile: un sistema politico che attribuisce alle due Camere gli stessi compiti, e al tempo stesso una legge elettorale che può produrre, per ciascuna di esse, un risultato diverso. Renzi, a sua volta, spera d’imporre una prassi che ritiene ragionevole. Ma la scorciatoia del pragmatismo, in questo caso, non funziona. Soltanto una riforma della Costituzione renderà la democrazia italiana più simile alle altre democrazie europee.