Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 3/7/2013, 3 luglio 2013
FALLISCE IL PROGETTO DELL’ISLAM POLITICO
La primavera araba ha giocato un brutto scherzo ai Fratelli musulmani, in Egitto e altrove: predicavano che l’Islam è la soluzione ai problemi del mondo musulmano e ora si trovano con le spalle al muro. Il fallimento del progetto egemone dell’Islam politico, dall’Egitto di Morsi alla Tunisia di Ennahda alla Turchia di Erdogan, è stato in realtà preceduto dalla progressiva disgregazione degli stati laici e autocratici che si sono affermati dopo la decolonizzazione o il crollo dell’Impero ottomano: si sono salvate le monarchie arabe ma le contestazioni affiorano anche in Giordania, in Marocco e nel Golfo.
È stato un processo lungo, durato decenni, paragonabile alla dissoluzione dell’Unione sovietica, che in alcuni casi come in Siria e in Algeria negli anni 90 ha aperto la voragine della guerra civile, uno spettro che ora si aggira dal Maghreb al Mashrek, da Occidente a Levante.
Se i laici in passato hanno fallito e gli islamici annaspano, quale è il modello che può tenere in piedi gli Stati mediorientali? Amplificate dai social media le rivolte arabe sono arrivate al momento cruciale senza autentici leader e progetti alternativi. Il vuoto non è solo di potere ma anche di idee: Twitter e Facebook producono ancora capi effimeri e non elaborano sistemi politici. Anche la risposta che possono dare i generali è limitata: una parte della piazza li invoca come salvatori della patria ma pure loro, dietro le quinte, sono stati complici dei disastri dei regimi secolaristi. Liquidando i dittatori sono stati assai abili a schierarsi dalla parte del popolo ma finora si sono rifiutati di assumere direttamente la gestione dell’Egitto o di altri Paesi mediorientali. Rischiano di perdere il comodo ruolo di baluardo dell’unità nazionale. Ed è questo il rischio maggiore che corre in prospettiva l’Egitto.
Per l’Europa dell’Est e da qualche giorno anche per i Balcani la soluzione è stata più facile: il modello dell’Unione europea, per quanto in crisi, ha costituito comunque un punto di riferimento a portata di mano. Forse per questo in molti insistono nel tenere la Turchia ancorata a Bruxelles: se il partito islamico Akp imbocca una deriva autoritaria anche il Bosforo si stacca dal continente e diventa una parte della sponda Sud.
L’infelicità araba e musulmana, come la chiamò Samir Kassir, deriva dal fatto che nessuno dei progetti attuati finora si è dimostrato efficace. Quello laico dei partiti baathisti - da Saddam in Iraq ad Assad in Siria - è affondato dopo lunga e dolorosa agonia, quello secolarista di Ataturk aveva emarginato e demonizzato una parte consistente della società tradizionalista: in Turchia i generali parlavano sempre a metà del Paese.
Il modello islamico ha ricalcato la strada dell’esclusione, ignorando le istanze laiche, dei diversi gruppi religiosi ed etnici. Il risultato è stata una polarizzazione tra schieramenti contrapposti, da piazza Taksim a piazza Tahrir ad Avenue Bourghiba. Inoltre i Fratelli musulmani sono poco flessibili. Si ostinano a riproporre la legge islamica, con il risultato che quando la religione è ovunque non è più da nessuna parte. La repubblica islamica sciita dell’Iran, quando serve, si dimostra più astuta e opportunista nell’agitare bastone e carota.
In realtà l’Islam politico ha ereditato un potere civile che non c’è, come sanno perfettamente i militari. Ci troviamo di fronte a stati semi-falliti, attanagliati da una povertà endemica, dalla disoccupazione, che non riescono a riscuotere le tasse e a produrre servizi elementari accettabili. I brandelli di stato siriano sopravvivono con 500 milioni di dollari al mese erogati da Iran, Russia e Cina, al Cairo galleggiano con gli aiuti arabi, la Tunisia è troppo piccola per contare su sostegni consistenti. C’è un’unica lezione della primavera araba: chi vuole governare da solo, anche se vince alle urne, è destinato a fallire.