Massimiliano Castellani, Avvenire 5/7/2013, 5 luglio 2013
CANTONA, L’ARTE DEL «CALCIATTORE»
«Essere francese per me vuol dire essere rivoluzionario... Non credo che si possa essere completamente felici vedendo la miseria che ci circonda». Non sono elucubrazioni provenienti dal circolo filosofico francese delle “camicie bianche” capitanato da Bernard- Henry Levy, ma il pensiero nudo e crudo di una rarità del calcio mondiale, Éric Cantona. Il guerriero dalla faccia da clan dei marsigliesi (Marsiglia è la città dove è nato il 24 maggio del 1966, da padre di origine sarda e mamma catalana) è a riposo, ma solo dai campi di calcio che, a sorpresa e con grande rimpianto dei suoi milioni di discepoli sparsi nel mondo, ha abbandonato nel ’97, a soli 31 anni. Coerenza dell’uomo, che eppure di sè ha sempre detto: «So di essere contraddittorio. Le persone che si contraddicono sono le più interessanti». E infatti sfidiamo a trovare negli ultimi vent’anni una figurina di calciatore più interessante ed artistica di Cantona.
Di biografie su di lui, ne sono state pubblicate una mezza dozzina, ma l’ultima, molto originale, Cantona. Come è diventato leggenda (Add Editore) di Daniele Manusia, consente di celebrare la nascita del mito che risale proprio a vent’anni fa: stagione di Premier 1992-’93. Dopo essere stato scartato dal Marsiglia, «ero troppo lento», il talento di Éric venne forgiato dal papà dell’Auxerre, Guy Roux che lo fece debuttare in Ligue1 (serie A francese) a 17 anni e mezzo. A 19 anni è già un giocatore decisivo, ma è cresciuto nell’era della gavetta obbligatoria e Roux lo spedisce al Martigues, prima di riprenderlo all’Auxerre. «Un campione», giudizio unanime, ma che nessuno sia profeta in patria, vale una volta di più per Cantona che tra gesta eroiche e gestacci in campo, saluta in fretta Bordeaux e Montpellier. E una volta riscoperto da genio incompreso, lascia in fretta anche la materna Olimpique Marsiglia dell’altrettanto unico e inimitabile presidente Bernard Tapie. Ma l’ultima tappa francese di Cantona non fu all’OM, ma nel piccolo Nimes. Poi finalmente la profezia del suo strizzacervelli si avverò: «Quando non sapevo se andare all’OM o al Matra Racing, il mio psicologo mi ha consigliato di andare in Inghilterra. Capiva di calcio? No, capiva me...». Con un libro di Groddeck (discepolo contestatario di Freud) in valigia, Éric il “rozzo” sbarca a Leeds. È l’inizio della sua rivoluzione calcistica. Una stagione appena, 9 gol, manciate industriali di assist d’autore e una Premier vinta. In mezzo, le solite bizze da cavallo di razza, indomabile, che però ha già stregato a un grande conoscitore di geni ribelli come Alex Ferguson, non ancora “sir” perché arrivato in un Manchester United che non vinceva un titolo nazionale da 26 anni. Cantona è l’uomo della svolta, l’unico calciatore ad aver vinto nello stesso anno due Premier con due maglie diverse, quella del Leeds e dei Red Devils di Manchester. A farlo diventare il leggendario King Eric”dello United, più che i record e i sei titoli vinti (4 Premier e 2 Coppe d’Inghilterra) in appena un lustro, è stato però qualcosa di molto più profondo. Pur non parlando l’inglese è entrato nell’anima del popolo britannico al quale ha rimarcato: «Essere un idolo non impedisce di guardare la realtà in faccia». E la realtà è fatta di violenza che con il tempo ha eliminato, così come da autodidatta ha sconfitto l’ignoranza preferendo tenere sul comodino Chiedi alla polvere di John Fante, piuttosto che l’Equipe con i risultati della domenica. Ha dribblato il «ghetto mediatico» che imprigiona il campione, senza mai chiedersi chi c’è dentro quella maglia e sotto il magico numero 7 che prima di lui fu del più maledetto dei diavoli rossi, George Best. «Mi piacciono le sfumature, ai margini di mondi già dimenticati».
Rispondeva alla stampa curiosa. Taccuino spiazzato, microfono che cadeva, come un difensore quando abboccava a una sua finta. Cantona è uno che quando è arrivato sotto i riflettori del circo pallonaro aveva già «letto tutto Pasolini» e recitava ben prima di debuttare in teatro e al cinema, le commedie di Artaud, dal quale ha ereditato la follia. «Sono pazzo sì, ma perché penso. I giocatori sono banali, sono dei robot che giocano, non gli è concesso di pensare». La sua parabola calcistica è stata davvero tutto un equilibrio sopra la follia, danzando a testa alta e con il colletto della maglia sempre alzato del combattente contro l’ingiustizia. «So per certo che gli arbitri si fanno comprare nelle coppe europee e mi chiedo se il signor Rothlisberger non sia un venduto pure lui», disse dopo l’eliminazione in Champions contro i turchi del Galatasaray.
Hanno smesso lo stesso anno Cantona e Rothlisberger, ma l’arbitro per una squalifica a vita: tentativo di combine di una partita. Anche Cantona è stato processato e condannato a 8 mesi di stop per il “fattaccio Simmons”, il tifoso del Crystal Palace che prese a colpi di kung-fu in tribuna.
Ha pagato con 3 ore di cella e altre 120 di lavori per i servizi sociali che ha speso insegnando calcio ai bambini. «Non è stata una punizione, ma un regalo. Grazie!», disse una volta scontata la condanna. In quel periodo di solitudine, girò un docufilm: “Les rebelles du fott”, devolvendo il ricavato alla Comunità dell’Abbè Pierre. Poi la decisione choc di ritirarsi, ma maturata da un uomo nuovo, convinto che «la fiducia in se stessi porta alla libertà di espressione, e la libertà di espressione porta al genio, all’euforia, al fuoco». Il sacro fuoco non l’ha trovato nel «calcio che è arte minore», ma nel cinema (una ventina di film e protagonista nel gioiello di Ken Loach “Looking for Erik”) e in teatro. Oggi a 47 anni fa il manager dei Cosmos di New York, ma ora più che mai si sente un artista che per quando morirà chiede: «Non voglio nessun epitaffio sulla mia tomba, solo una pietra bianca. Voglio lasciare la sensazione di un grande mistero».