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 2013  luglio 02 Martedì calendario

PUTIN ED ERDOĞAN GIGANTI ALLO SPECCHIO


In questi giorni di proteste veementi in Turchia, Mosca si specchia in Ankara e vede riflessa l’immagine di un paese che le somiglia molto. Una potenza regionale con la quale ha ottimi rapporti politici ed economici, progetti per il futuro, interessi che coincidono e spesso si sovrappongono in molte aree sensibili del pianeta. E come la Turchia anche la Russia soffre di problemi interni legati al crescente malcontento di una parte della popolazione più sensibile della massa alle scelte autoritarie delle rispettive leadership.
Dopo secoli di guerre, le eredi di quelli che furono gli imperi ottomano e zarista-bolscevico godono oggi di una pace voluta e cercata, evoluta in un’intesa pragmatica basata su necessità geopolitiche primarie: fornitura e transito di idrocarburi, stabilità regionale e sicurezza comune, per continuare la corsa verso una crescita ancor più sostenuta delle rispettive economie.
Tenute ai margini di un’Europa che le ha sempre temute, Russia e Turchia possono contare su una relazione che è andata sviluppandosi soprattutto da inizio millennio in avanti, con i leader attuali già saldamente al comando dei loro bastimenti, lanciati a recuperare risorse e influenza dopo un lungo periodo di magra. Se si pensa che negli ultimi dieci anni il presidente russo Putin e il primo ministro turco Erdoğan si sono incontrati circa trenta volte, si ha un’idea di quanto importante sia per i due paesi il legame che li tiene uniti [1].
Ma c’è un ma: la crisi siriana, che vede Mosca e Ankara schierate su posizioni contrapposte. Una prova del fuoco per la loro intesa e per la tenuta della strategia turca fondata sul principio «zero problemi con i vicini». Perché di problemi invece ce ne sono, e ce ne saranno, nella ricerca di una soluzione del conflitto che insanguina da due anni la Siria. Bisognerà vedere se Russia e Turchia riusciranno a superarli e mantenere intatto un rapporto che, secondo l’analista russo Fëdor Luk’janov, per la qualità del suo sviluppo è uno dei risultati più gratificanti ottenuti dalla fine della guerra fredda [2].

2. Putin e Erdoğan hanno ottenuto grandi risultati alla guida dei rispettivi paesi. Il presidente russo è riuscito a tirar fuori i rottami della Federazione dagli anni di crisi e buio dell’èra El’cin, suo predecessore, e a ricomporli sotto forma di una rinata potenza con aspirazioni globali. La stagnazione post-Urss è superata e il tenore di vita della popolazione è cresciuto notevolmente. Anche il primo ministro turco ha garantito benessere e crescita costante. L’economia del paese è esplosa, il potere dei militari è stato ridimensionato, la Turchia è tornata a contare ed è ora una potenza regionale. Ma i due leader eurasiatici hanno evidentemente tenuto troppo stretto a sé lo scettro del potere. La decennale permanenza alla guida dei rispettivi paesi e la prospettiva per entrambi di sedere più in alto di tutti fino al 2024 hanno scosso la sensibilità di quelle classi medie che si sono andate formando negli ultimi anni. L’equazione «più benessere ma meno libertà uguale consenso (comunque)» non sta reggendo. Le scelte autoritarie dei due leader cozzano contro giovani e meno giovani che vogliono partecipare alla costruzione del futuro del paese, che non accettano le poche libertà concesse e il ferreo controllo del potere politico sulla società.
In Russia e in Turchia l’approccio del potere alle proteste di piazza è stato diverso, ma comunque repressivo. Simile invece è stato il disappunto delle due leadership di fronte alle critiche piovute dall’Occidente sul mancato rispetto dei diritti dei manifestanti. Putin ed Erdoğan hanno etichettato i dimostranti come estremisti e si sono detti sicuri che dietro di questi tramano e si nascondono forze esterne ai rispettivi paesi.
Più esplicito è stato il primo ministro Erdoğan quando all’aeroporto di Ankara, in partenza per il Marocco, ha addossato la colpa di quanto sta avvenendo nelle strade della Turchia a potenze straniere che nell’ombra organizzano le manifestazioni. Su queste oscure presenze il premier turco ha deciso di affidare alle forze d’intelligence il compito di indagare e riferire. «Siamo tutti in attesa di conoscere gli esiti di queste indagini», si legge su Hürriyet Daily News, criticando la cattiva abitudine del primo ministro di scaricare sugli altri i propri errori. «Questo è il genere di cose», continua il quotidiano turco, «che fa Vladimir Putin in Russia, ma che vengono notate in un paese che, per fortuna, è una democrazia» [3].
È lo stesso Putin a consigliare il collega turco su come affrontare la piazza e le sue voci: «Abbiamo goduto di ottime relazioni ad alto livello con la Turchia», spiega il leader del Cremlino nella conferenza stampa seguita al recente summit Russia-Ue, «soprattutto negli ultimi anni. E ci aspettiamo che la leadership turca, in un dialogo con l’opposizione e con la società civile, sarà in grado di trovare una soluzione a tutti questi complessi problemi che sono stati sollevati dalle piazze. In tal caso, le proteste saranno legittimate e i problemi dibattuti in altre sedi, dove le persone possono dialogare». Il presidente russo conferma l’apertura di un dialogo con i dimostranti di casa e di come sia impossibile comparare gli eventi che stanno scuotendo la Turchia con i problemi che il Cremlino ha con le ong presenti in Russia: «Sarebbe come paragonare le mele alle arance» [4].
Molti in questi giorni, sia a Mosca sia ad Ankara, si cimentano invece nel mettere a confronto quanto sta accadendo – o è accaduto – nelle strade dei due paesi e speculano su come andrà a finire. Il potere turco sembra avere molti più grattacapi di quello russo nel far cessare le contestazioni. Circa la metà degli studenti russi, secondo un recente sondaggio, preferisce infatti pensare a emigrare piuttosto che restare e lavorare nel paese [5]. Giovani e meno giovani della Federazione Russa sembrano più apatici e disillusi rispetto a possibili cambiamenti, anche perché non abituati alle regole di un paese democratico. Di contro i turchi che sono scesi nelle strade sono cresciuti in un paese in cui i margini di dissenso sono più ampi.

3. La storia dei rapporti tra Mosca e Ankara disegna la comune volontà di privilegiare i propri tornaconti intessendo una fitta trama di contatti che nel tempo sono cresciuti e hanno portato buoni risultati. Pur appartenendo a schieramenti geopolitici diversi, con la Turchia perno orientale della Nato e la Russia alla riconquista di una sua sfera d’influenza eurasiatica, le leadership dei due paesi non hanno mai amato l’ordine unilaterale del mondo proposto dagli americani dopo la guerra fredda. Mosca e Ankara hanno preferito concentrarsi sulla crescita economica e sulla stabilizzazione di quelle aree dove le rispettive sfere d’influenza coincidono. Balcani, Caucaso, Medio Oriente e Asia centrale, soprattutto.
Una scelta di campo, confermata dalla decisione della Turchia di avvicinarsi velocemente a un’organizzazione internazionale decisamente contrapposta all’Alleanza Atlantica: l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco nell’acronimo inglese). Ankara, per mano del suo ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, ha firmato in aprile un memorandum che la rende dialogue partner dell’organizzazione guidata da Russia e Cina e che annovera tra i suoi membri quattro ex repubbliche sovietiche centroasiatiche: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. «Una data storica per noi», ha affermato il ministro turco dopo la firma dell’accordo. «Oggi, con questa scelta», spiega Davutoğlu, «la Turchia dichiara che il nostro destino è lo stesso della Sco». E aggiunge che questo è solo l’inizio e che il suo paese farà finalmente parte «di una famiglia che è composta da paesi che vivono insieme non da secoli, ma da millenni». Nazioni che – come quella kazaka, kirghiza e uzbeka – hanno in comune con Ankara affinità linguistiche, profonde radici storiche e l’interesse a combattere terrorismo e traffico di stupefacenti [6]. La mossa turca non mancherà di indispettire più di un potente del campo occidentale.
Terminato il tempo in cui i russi concedevano aiuto ai curdi e i turchi ai ribelli ceceni, i due paesi hanno puntato soprattutto sull’economia. Il loro rapporto in questo campo è lievitato negli ultimi anni e lo scambio commerciale ha registrato nel 2012 un aumento dell’8,l%, sfiorando i 35 miliardi di dollari [7]. Il traguardo prospettato dalle massime autorità dei due Stati è di arrivare a 100 miliardi di dollari entro pochi anni [8]. Ci sono circa tremila aziende turche che lavorano in Russia, per un investimento pari a 7,3 miliardi di dollari, oltre a ditte di costruzioni coinvolte in 1.400 progetti per un valore globale di 38,5 miliardi. Di contro, sono oltre 3,5 i milioni di turisti russi che ogni anno affollano le calde spiagge turche.
La voce che più di ogni altra caratterizza lo scambio economico tra Mosca e Ankara è però legata all’energia. Un capitolo che regola l’intero impianto della loro intesa strategica e che fa pendere l’ago della bilancia commerciale in favore di Mosca e dei suoi idrocarburi. Nel 2011 la Turchia ha importato dalla Russia il 93% del petrolio e il 97% del gas. Sempre due anni fa Ankara ha esportato verso Mosca merci per circa 6 miliardi di dollari, contro i 23 miliardi di importazioni dalla Russia, dei quali il 17,9% in combustibili fossili [9].
I dati parlano chiaro: la Turchia dipende largamente dall’energia russa. Tale squilibrio è aggravato dalle sanzioni imposte all’Iran, altra fonte di idrocarburi alla quale Ankara deve in parte rinunciare. La scelta turca, poi, di produrre energia elettrica attraverso il gas, l’ha costretta negli anni a legarsi ancor di più alle ricchezze russe. Non è finita: nel 2019 sarà ultimata la prima centrale nucleare in terra turca, ad Akkuyu, nel Sud del paese. A costruire l’impianto, ma anche a gestirlo, saranno proprio i russi, per un affare da oltre 20 miliardi di dollari. Quasi una sudditanza energetica, lamentano in molti nel paese anatolico. Ma come in ogni buon patto che si rispetti c’è una contropartita. In questo caso, Ankara potrà diventare sempre più, con l’aiuto e nell’interesse di Mosca, un paese di transito delle rotte energetiche russe e non solo, portando nelle casse dello Stato forti guadagni, decongestionando il traffico di petroliere nelle acque del Mar Nero e mitigando i conseguenti problemi ambientali.

4. Sicuri di poter risolvere ogni controversia con il dialogo e il rispetto dei comuni interessi economici e strategici, oggi i due partner eurasiatici sono chiamati alla sfida che più di ogni altra può mettere a rischio la tenuta della loro relazione: la risoluzione della crisi siriana. Gli organismi istituzionali creati in questi ultimi anni dalle due leadership, lo High Level Cooperation Council (Udik) del 2010 e sue sottostrutture come il Joint Strategic Planning Group a livello di ministri degli Esteri, il Social Forum e il Joint Economic Council, garantiscono, secondo la retorica ufficiale, che il conflitto per Damasco non intaccherà la partnership.
Anzi, secondo un settimanale turco, da più parti si iniziano a percepire le potenzialità della relazione russo-turca anche in chiave di risoluzione delle questioni internazionali. Viene citato Zbigniew Brzezinski, l’illustre analista americano, già braccio destro per la politica estera del presidente Jimmy Carter, convinto che Russia e Turchia possano farcela e che gli Stati Uniti debbano formare con Mosca e Ankara un triangolo per abbattere pregiudizi e risolvere problemi comuni e globali [10].
Dal febbraio scorso il segretario di Stato americano John Kerry ha dedicato agli incontri con il ministro degli Esteri russo Lavrov e con quello turco Davutoğlu lo stesso numero di ore. Washington ritiene Mosca e Ankara essenziali, a diverso titolo, per mettere fine alla guerra in Siria. I due paesi, pur appoggiando ognuno una delle parti in conflitto, hanno un obiettivo comune: non compromettere ulteriormente la stabilità regionale. I russi per il timore che dalla variegata costellazione che combatte il regime degli Asad possano, in caso di successo, provenire minacce terroristiche per iniziativa dei gruppi fondamentalisti islamici presenti oggi armi in pugno sul terreno siriano. I turchi temono invece le possibili reazioni di Mosca a un intervento armato internazionale contro Damasco, come pure il rinnovato appoggio occidentale ai curdi del Pkk o persino la chiusura del rubinetto energetico russo, indispensabile per Ankara.
Putin ed Erdoğan sono riusciti a superare anche la crisi che lo scorso anno portò all’annullamento del previsto vertice tra i due leader. Il 14 ottobre 2012 il capo del Cremlino e il premier turco avrebbero dovuto incontrarsi per discutere ancora di energia e della costruzione in acque turche di un tratto del South Stream, la condotta russa rivale dell’«occidentale» Nabucco. Ma qualche giorno prima alcuni jet delle Forze aeree turche costrinsero un velivolo civile siriano proveniente da Mosca e diretto a Damasco ad atterrare ad Ankara. Le autorità turche sospettavano che il volo trasportasse materiale bellico diretto alle forze di al-Asad. Secondo Der Spiegel, invece, dietro l’incidente ci sarebbero stati i servizi d’intelligence statunitensi, da sempre contrari alla partnership strategica russo-turca [11].
La faccenda è rientrata e il rapporto tra i due paesi è continuato senza intoppi. Secondo l’ambasciatore russo in Turchia, Vladimir Ivanovskij, «i contatti tra i due paesi avvengono in un clima positivo e costruttivo», anche sulla Siria [12]. Vedremo.