Michelangelo Guida, Limes 2/7/2013, 2 luglio 2013
ERDOĞAN L’UOMO PIÙ AMATO E ODIATO DELLA TURCHIA
Qualche anno fa un amico turco, conosciuto quando eravamo studenti in una prestigiosa università londinese, mi raccontò della visita di Recep Tayyip Erdoğan al museo di Istanbul dove oggi è funzionario, concludendo con queste parole: «Il primo ministro non cammina, è come se levitasse nell’aria, sarà sicuramente la forza che gli conferiscono le centinaia di migliaia di preghiere in tutto il paese». Certo che quando il leader si muove il traffico viene fermato, i jammers bloccano tutti gli apparati elettronici, centinaia di poliziotti lo circondano ma lui, grazie alla statura, è sempre visibile. Immagine mistica a parte, Erdoğan è un capo carismatico, profondamente amato dalla grande maggioranza della popolazione e che dal 2002 ha vinto sette elezioni consecutive, accrescendo progressivamente la percentuale di consensi. Secondo voci insistenti, sono stati sventati almeno trenta attentati contro di lui e la sua famiglia e – in questo caso è la magistratura a confermarlo – più di un tentato golpe organizzato da gruppi deviati all’interno delle Forze armate.
Eppure, il 58% dei contestatori di Gezi Parkı chiede le dimissioni di Erdoğan [1] e gli slogan sono tutti contro di lui. Come è possibile che un politico possa suscitare allo stesso tempo tanta ostilità e tanto affetto? Per rispondere a questa domanda cercherò di dare delle coordinate di minima utili a capire meglio la sua controversa figura, partendo dalla biografia.
Dagli albori al municipio di Istanbul
Recep Tayyip Erdoğan [2] è nato a Istanbul nel 1954 da una famiglia da poco immigrata dal Mar Nero, stabilitasi nel degradato quartiere di Kasımpaşa. Nonostante le difficoltà economiche, Erdoğan riuscì a frequentare il liceo – lo İmam Hatip Lisesi, il tradizionale liceo per la formazione degli imam, l’unica istituzione che ancora oggi fornisca un’educazione religiosa nel paese – e successivamente a conseguire la laurea in scienze economiche.
Già durante gli studi Erdoğan iniziò la sua carriera politica, prima nell’Unione nazionale degli studenti, di cui fu rappresentante dei liceali, poi all’università, nel partito di Erbakan [3], divenendone presto presidente della sezione giovanile.
Quando, dopo il golpe del 1980, il partito di Erbakan si riorganizzò con il nome di Refah Partisi (Rp), Erdoğan iniziò l’ascesa nelle amministrazioni locali e nei quadri del partito divenendo presto capo della sezione di Istanbul e membro del Consiglio direttivo. Come per tutti i partiti turchi, anche per il Refah la sezione di Istanbul è quella più importante e prestigiosa per diversi motivi: Istanbul è la provincia dove vive il 18% dell’intera popolazione turca e con le sue tre circoscrizioni elettorali elegge 85 dei 550 parlamentari (87 dalle prossime elezioni). Inoltre, poiché Istanbul è la capitale economica e tutte le televisioni e i quotidiani nazionali vi hanno sede, è sempre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica che sogna di poter vivere un giorno nella grande metropoli dove «sotto ogni pietra si trova l’oro», come recita un proverbio turco.
Erdoğan sviluppò nel partito di Istanbul una poderosa macchina organizzativa. La direzione provinciale era il cervello verso il quale confluivano tutte le informazioni e da dove venivano impartiti tutti gli ordini. Per ogni urna (14 mila nella sola provincia di Istanbul) vi era un gruppo di cinque attivisti che si occupavano della campagna e dei rapporti con gli elettori iscritti al seggio. Questo sistema permetteva al Refah di raggiungere ogni singolo elettore. Ciascun attivista doveva raccogliere informazioni sui problemi più avvertiti dalla popolazione, oltre a eventuali suggerimenti e richieste, per trasmetterli alla direzione provinciale attraverso la complessa rete del partito [4]. Inoltre, in modo particolare nelle aree più povere, gli attivisti si occupavano di visitare le famiglie ed eventualmente di portare loro aiuti materiali raccolti dagli imprenditori della zona o dalle autorità locali. Erdoğan riuscì a mettere in piedi una vasta organizzazione di militanti animati dalla volontà di portare un hizmet (servigio alla religione e alla comunità), cosa che nessuna associazione o partito era riuscita mai a costruire in Turchia.
Forte di questa organizzazione così capillare, Erdoğan fu eletto parlamentare nel 1991 e poi sindaco della grande municipalità di Istanbul nel 1994 con il 25,2% dei voti (una percentuale altissima nel farraginoso sistema politico degli anni Novanta). I successi alla guida della città non fecero altro che aumentare la sua popolarità. Inoltre, come primo sindaco di estrazione umile e di famiglia di immigrati, dava voce a una fascia importante della popolazione che si era sempre sentita emarginata. Erdoğan avviò la costruzione di numerose infrastrutture – dalle condotte idriche alle fognature, dalle reti tranviarie e della metropolitana a sottopassaggi e gallerie, dalla pianificazione urbana alle case popolari – migliorando considerevolmente la vita dei cittadini.
28 febbraio 1997
Erdoğan si stava ormai affermando a livello nazionale quando i militari imposero una sterzata laica al paese. Il 28 febbraio 1997, il Consiglio di sicurezza nazionale dominato dai generali allungò al governo Erbakan una lista di raccomandazioni (o meglio ultimatum) nelle quali si chiedeva di prendere provvedimenti per limitare l’influenza degli attivisti musulmani nell’economia, nell’educazione pubblica e privata e nelle istituzioni dello Stato. Dopo alcune settimane la coalizione al governo cedette sotto le pressioni dei militari. Il Refah fu rinviato a giudizio per attività criminali e attentato ai princìpi del kemalismo. Il giudizio si concluse dopo pochi mesi con la chiusura del partito da parte della Corte costituzionale. Erdoğan fu condannato al carcere da un altro tribunale con l’accusa di aver letto in un comizio, nel dicembre 1997, una poesia che, secondo i giudici, incitava alla violenza in nome della religione.
Il 28 febbraio non fu solo un colpo di Stato militare ma anche economico. Le società «verdi» – quelle guidate da conservatori musulmani – furono escluse dalle gare pubbliche e penalizzate da una burocrazia asfissiante. Le grandi società economiche e i sindacati come il Disk, i quali temevano che il Refah privilegiasse le piccole imprese dell’Anatolia, appoggiarono con i loro media la campagna denigratoria dei movimenti islamici. Ne scaturì una vampata di orgoglio kemalista e laico nel paese.
Da anni i conservatori si sentivano ingiustamente perseguitati ed esclusi dalla vita pubblica. Il libro e il film Minyeli Abdullah illustrano perfettamente questa condizione psicologica.
Dopo il 28 febbraio, nei discorsi di Erdoğan emerse una forte volontà di rivalsa, già presente nelle sue precedenti allocuzioni. Erdoğan si affermò così come l’uomo del riscatto della maggioranza esclusa.
Il Refah si ricostituì nel Fazilet Partisi (Fp) e, dopo qualche mese (sempre a causa di una chiusura imposta dalla Corte costituzionale), nel Saadet Partisi (Sp) [5]. Già durante la creazione dell’Fp, nel 1998, un gruppo di «innovatori» (yenilikçi) guidato da Abdullah Gül [6], Bülent Arınç [7], Abdüllatif Şener [8] e successivamente dallo stesso Erdoğan iniziò a criticare apertamente la linea del partito. In una clamorosa intervista, Arınç annunciò i nuovi programmi della corrente: innanzitutto il nome del partito doveva riflettere un’idea e non solo riprendere parole arabe che rimandano all’ideologia; la corrente voleva un partito che desse nuova forza alla democrazia, ai diritti umani, prendesse in considerazione la questione curda e rivolgesse attenzione ai giovani. Allo stesso tempo non doveva essere monopolizzato dalla religiosità musulmana ma rimanere al centro, integrato con il mondo reale. Infine doveva essere un partito che applicasse su scala nazionale il modello Erdoğan già sperimentato a Istanbul [9]. Solo nel congresso del 2000, però, la corrente tentò di emarginare Erbakan e il suo gruppo di «tradizionalisti» (gelenekçiler). Gli «innovatori» non riuscirono a prendere il controllo del nuovo partito e decisero quindi di formare l’Ak Parti (Akp).
Dalle riforme a Gezi Parkı
II 28 febbraio aveva mostrato ai movimenti islamici la loro fragilità. Con la sua retorica affermazione di voler costruire il mercato unico islamico, una volta al governo Erbakan generò diffidenza in Occidente, molte perplessità in Oriente e nessun contratto per le aziende turche in cerca di mercati. Il mondo intellettuale e i grandi canali televisivi avevano appoggiato le iniziative antidemocratiche dei militari. L’Akp doveva dunque reinventare una politica conservatrice che raggiungesse tutte le componenti sociali. Non con rigide posizioni ideologiche ma con lo hizmet, offrendo cioè servizi alla popolazione.
Erdoğan divenne il leader indiscusso del partito. Nel 2002 fu nominato primo ministro, carica conservata fino a oggi grazie agli ottimi risultati elettorali e alla mancanza di una vera opposizione. Erdoğan portò con sé il suo sperimentato modello di organizzazione partitica. La repressione nei suoi confronti ne aveva fatto la vittima di un sistema iniquo che tendeva ad emarginare i religiosi osservanti e tutti quelli che venivano dalla periferia del paese. Gli elettori dell’Akp sono infatti principalmente proprio quei turchi generalmente religiosi e provenienti dalle zone rurali del paese che si sono sentiti esclusi dal sistema [10].
Negli undici anni al governo del paese, l’Akp ha promosso diverse riforme per liberalizzare l’economia e promuovere le libertà. Le esportazioni sono passate dai 38 miliardi di euro del 2002 ai 119 miliardi del 2012, nonostante la crisi economica globale [11]. La crescita media del pil, nello stesso periodo, è stata del 5,2% [12]. Per la prima volta nella storia repubblicana lingue come il curdo sono state riconosciute dallo Stato e solo oggi la gente le può parlare liberamente. Le donne, grazie alla maggiore prosperità economica e alle nuove opportunità educative, partecipano più attivamente al mondo del lavoro.
Queste riforme hanno sicuramente facilitato un rapido cambiamento sociale, al quale la politica non sempre è riuscita ad adeguarsi. L’opposizione è rimasta allineata ai vecchi schemi degli anni Novanta, senza proporre innovazioni. Il Chp ha perso l’occasione di divenire un vero partito socialdemocratico, rimanendo vincolato al nazionalismo kemalista e alle élite militari ed economiche. L’Mhp non è riuscito a formulare un discorso che trascendesse il nazionalismo turco. Il partito curdo Bdp è l’unico che sembra trarre vantaggio dal processo di pace avviato dal governo (coinvolgendo anche gli ex arcinemici del Pkk) e dal cambiamento nella società, anche se è ancora visto dagli elettori come partito regionale e non nazionale.
Erdoğan mantiene il suo tono patriarcale per conservare il monopolio sull’elettorato di centro-destra. Le recenti proteste e la sua dura reazione hanno rafforzato la paura dei conservatori che il 28 febbraio possa tornare. Sicché costoro si sono stretti ancor più attorno al proprio leader e probabilmente ne hanno accresciuto il consenso: la manifestazione di sostegno a Erdoğan a Istanbul, il l6 giugno scorso, trascurata dai media internazionali, è stata probabilmente il più grande raduno politico nella storia di questo paese. Oltre al sostegno per il leader, la manifestazione ha evidenziato anche le paure dell’elettorato conservatore.
Sul fronte opposto, il tono patriarcale del primo ministro ha ulteriormente irritato coloro che non votano Akp. Nella prima legislatura da capo del governo Erdoğan aveva cercato di allargare il consenso del suo partito attraverso investimenti in infrastrutture in aree tradizionalmente ostili al centro-destra, come Smirne. Allo stesso modo aveva cercato delle forme di compromesso con gli aleviti, che tradizionalmente votano Chp. Queste aperture non lo hanno aiutato ad allargare la sua base elettorale e probabilmente lo hanno convinto che qualsiasi sia lo hizmet nelle regioni come Smirne o tra gli aleviti, costoro non supereranno la loro storica diffidenza per i conservatori musulmani.
Forte della sua popolarità e dell’uscita di scena dei militari nel 2010, Erdoğan si è rivolto negli ultimi anni all’elettorato conservatore, sperando di ampliare il consenso nelle regioni curde attraverso il lancio di un processo di pace, come pure nel nuovo ceto medio, sfruttando le tradizionali contrapposizioni della società turca.
L’elettorato dell’Akp è affascinato da questa figura carismatica che si interessa anche di temi che in Europa sarebbero esclusi dagli interessi del governo. Simbolica è la questione dei tre figli. Non si tratta di un Leitmotiv conservatore ma di una necessità visto che, a causa del veloce aumento della prosperità, il tasso di natività è in picchiata. In ogni occasione pubblica Erdoğan chiede alle famiglie turche di fare almeno tre figli. Sebbene non esista nessun obbligo legale, le donne si sentono offese per questa invasione della loro privacy. Ancora, il dibattito sulla nuova legge sugli alcolici ha visto il premier in prima linea. In realtà, la nuova legge non comporta vere restrizioni (almeno nessuna che non esista già in molti paesi europei), ma Erdoğan ha condotto una campagna personale contro il consumo di alcolici aumentando in parte della popolazione la paura che il governo conservatore stia gradualmente portando la šarī‘a nel paese. Anche se in undici anni di azione del governo non si è mai andati in questa direzione – ormai neanche gli ambienti conservatori ambiscono più al ritorno alla šarī‘a – questa paura è persistente in una sezione consistente della popolazione.
Paure e diffidenze reciproche fra sostenitori e avversari dell’Akp, in un clima nazionale e internazionale di grande tensione, hanno creato la base per le proteste di Gezi Parkı. La violenza della polizia è da condannare, ma non è certo una novità. I governi Erdoğan hanno promosso con estrema cautela la riforma delle forze dell’ordine, ma le scene di violenza e di intolleranza della polizia contro i curdi nel Sud-Est dell’Anatolia non hanno provocato mai reazioni a livello nazionale.
Nei primi giorni delle proteste a piazza Taksim il primo ministro e i suoi consiglieri non hanno saputo interpretare gli eventi. Poi, la psicosi da 28 febbraio ha dominato le loro reazioni. In pochi giorni, certo, le proteste sono passate dalla rivendicazione ecologista e dalla condanna della violenza delle forze dell’ordine alla sfida lanciata al governo da parte dei diversi gruppi che temono Erdoğan. Il primo ministro – al contrario del suo vice Bülent Arınç o del presidente Abdullah Gül – invece che rassicurare la popolazione ha esaminato gli eventi esclusivamente attraverso la lente del 28 febbraio. Il timore del leader era che i movimenti di sinistra, gli aleviti, i kemalisti e sindacati come il Disk, così come parte degli imprenditori che si rifanno al Tüsiad (la Confindustria turca), avrebbero sfruttato oggi le proteste della piazza come avevano appoggiato ieri l’intervento dei militari contro Erbakan.
Anche se le profonde fratture nella società turca hanno origini lontane, risalenti agli ultimi decenni dell’impero, oggi le dinamiche politiche sono cambiate proprio a causa delle riforme di questo governo. Gli atteggiamenti patriarcali di Erdoğan non hanno fatto altro che attizzare il fuoco della protesta. Nonostante i toni durissimi, però, bisogna riconoscere che il governo ha saputo, fra l’altro, avviare un processo di pace con i curdi, coinvolgendo il Pkk e il Bdp (in passato arcinemici).
Vedremo se Erdoğan saprà rimodellare nei prossimi mesi la sua politica. Grazie al suo carisma, il primo ministro sa che, nel caso il processo di pace con i curdi andasse a buon fine, non perderà i voti dei nazionalisti delle regioni del Mar Nero; quanto alle recenti proteste a Istanbul e in altre città turche, superata la crisi, compromessi come la rinuncia ai progetti edilizi in piazza Taksim potrebbero ulteriormente rafforzarlo nell’opinione pubblica, anche se le fratture sociali restassero invariate.