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 2013  luglio 02 Martedì calendario

GENESI DI UNA RIVOLTA


1. Sulla Cumhuriyet Caddesi, una delle principali vie di accesso a piazza Taksim, da settimane a ogni angolo si vendono bandiere e fischietti. Le facciate degli edifici alternano il rosso della bandiera nazionale alle gigantografie di Atatürk. Sono le stesse che addobbano edifici pubblici e privati in occasione delle festività repubblicane, momenti di orgoglio e di memoria storica per alcuni, ultimi segni concreti del nazionalismo laico per altri. In questi giorni in cui non c’è nessuna festa comandata da celebrare, in molti hanno cercato di interpretare il peso e il significato di quelle bandiere: hanno contribuito a ispirare e unire le anime così diverse della piazza?
Sulla sponda europea della città, piazza Taksim costituisce uno dei principali snodi del trasporto pubblico (metropolitana, stazione autobus, collegamento con il Bosforo via Kabataş) e il centro di molte attività commerciali. Da qui si accede alla trafficata Istiklal Caddesi, la via pedonale immagine di una città sempre sveglia tra hotel di lusso e locali notturni. Taksim, cuore delle proteste che in queste settimane agitano la Turchia, è però anche la piazza simbolo di storiche rivendicazioni politiche e grandi manifestazioni: come quella tragica del 1° maggio 1977, quando 36 persone persero la vita dopo un attacco delle forze di sicurezza alla folla di manifestanti accorsi per la festa dei lavoratori.
Per contestualizzare la protesta e il suo luogo simbolo, Gezi Parkı, è però necessario ricordare una mobilitazione che negli ultimi anni ha coinvolto associazioni di architetti e movimenti ambientalisti contrari alla progettazione e alla realizzazione di varie opere pubbliche a grande impatto ambientale. Queste realtà, che insieme a molte altre confluiranno in Taksim Dayanışması (Solidarietà Taksim) [1], si oppongono a una Turchia a due velocità e denunciano una forte disparità di risorse tra periferie in cui scarseggiano le infrastrutture di base e centri urbani in cui il paesaggio cantieristico alterna grattacieli e centri commerciali.
Per denunciare la rapida trasformazione urbana di una megalopoli estesa su più di 5 mila km2, nel 2011 il regista Imre Azem è andato oltre. Con il documentario Ekumenopolis ha messo in luce gli effetti delle politiche neoliberali degli anni Ottanta, la gestione delle migrazioni interne dalle aree rurali, i piani di riqualificazione urbana e, non ultima, la cosiddetta gentrification [2] che oggi interessa diversi quartieri della città tra cui il centrale Tarlabaşi. In questi anni, le proiezioni e i dibattiti con il regista si sono susseguiti all’estero e in molte università della Turchia, come nel marzo scorso presso l’Università Bilgi di Istanbul dove è stata organizzata una proiezione sottotitolata in inglese a cui hanno partecipato anche molti studenti Erasmus. È iniziata così una controinformazione che è andata oltre le singole opere pubbliche in cantiere, rivendicando una maggiore coesione sociale e un’attenzione a tematiche ambientali.

2. Sin da subito Gezi Parkı e il progetto di trasformazione di piazza Taksim sono diventati così la sineddoche utilizzata per indicare un tutto ben più articolato. Nelle domeniche antecedenti il 27 e il 28 maggio scorsi, quando i primi gruppi di attivisti hanno iniziato a presidiare il parco, nel cantiere attiguo i lavori di ricostruzione della piazza, iniziati da ormai diversi mesi, proseguivano notte e giorno. Solo dopo i violenti scontri del 31 maggio e la mobilitazione di migliaia di persone riversatesi nelle strade, la protesta si è connotata come solidarietà e partecipazione civile.
Del resto, un’occupazione nel cuore della città non passa inosservata: aumenta il traffico, chiudono le stazioni metro e si fermano i battelli sul Bosforo. Con rituali precisi, si consuma ogni sera il richiamo alla resistenza: tra le 18:30 e le 19, dopo il lavoro, la strada è degli impiegati che dai grattacieli delle multinazionali di Mecidiyeköy camminano verso Taksim; alle 21 iniziano concerti di pentole e i caroselli di auto; alle 23 si accendono e si spengono le luci delle case. Per chi non scende in strada, è un continuo di tweet e post sui social network, una vera e propria seconda piazza Taksim virtuale.
L’utilizzo di questi strumenti è stato fin dall’inizio parte integrante della protesta. Notte e giorno si rincorrono post contenenti informazioni sugli avvenimenti, ma è in caso di scontri con la polizia che il contributo di questi canali diventa fondamentale: i punti di soccorso più vicini, gli avvocati da contattare, le strade da evitare, i numeri di telefono e gli indirizzi di chi fornisce ospitalità ai manifestanti in strada. Tutto viene comunicato attraverso smartphone.
Lì dove in concreto avveniva la protesta, tra le tende e gli stand di Gezi Parkı, sgomberati dalla polizia la sera di sabato 15 giugno, la prima impressione era quella di una grande partecipazione: oltre alla musica e all’aria di festa, i giovani, le famiglie con i bambini, gli anziani seduti sulle sedie da campeggio sembravano trasmettere il significato più politico del termine «presenza». Quando venerdì 14 giugno per l’ultima volta sono stata al parco, per le forti piogge della notte prima si ripulivano i viali e si isolavano le tende con teli di plastica. Gli stand delle associazioni erano però al loro solito posto, così come i punti ristoro, le librerie autogestite, le farmacie improvvisate e l’infermeria.
Gezi Parkı sembrava una città nella città, a metà tra una comune e una grande Festa dell’Unità. Dal palco si alternavano interventi e concerti, assemblee e slogan. Come nei giorni precedenti si distribuivano cibo e medicinali, tra gli sguardi curiosi di giornalisti stranieri e di chi in giacca e cravatta era venuto nella pausa pranzo a mangiare un panino al parco. Ricordo che con alcuni studenti delle Università di Boğaziçi e Bilgi in quelle ore al parco tra un tè e l’altro guardavo preoccupata verso i lati della piazza dove stazionava la polizia e continuavo a chiedere: dopo l’ultimatum del governo, non avete paura?
Le prospettive, gli anni di studio e i futuri soggiorni all’estero: nulla di questo sembrava fermarli. Neppure la sessione di esami prevista proprio nei giorni degli scontri. Nelle loro risposte c’era ancora tanta ironia: il premier li ha chiamali çapulcu (vandali, fannulloni), loro hanno fatto di questo un attributo di orgoglio scrivendolo su magliette e adesivi: Dikkat, çapulcu (Attenzione, fannullone). La polizia ha attaccato con gas urticanti, loro hanno costruito maschere artigianali con bottiglie di plastica. Quando domenica l6 giugno, il giorno dopo i terribili eventi che hanno accompagnato il violento sgombero del parco da parte della polizia, è apparsa la foto di un blindato che spruzzava gas di colore rosso, il post contenente la foto era accompagnato dalla scritta «nuovo gusto alla fragola». Così l’umorismo si combinava agli slogan della resistenza, su tutti quel: «heryer Taksim, heryer direniş («Ogni luogo è Taksim, resistenza ovunque»).

3. Se tante erano le persone che a titolo diverso frequentavano Gezi Parkı, la varietà di associazioni, gruppi e movimenti presenti contribuiva a rendere confuso il quadro politico in cui circoscrivere la protesta. Nel parco si trovavano tra gli altri: movimenti socialisti, comunisti, anarchici, nonché la miriade di gruppi che costituiscono la galassia dell’estrema sinistra turca, una realtà questa estremamente frammentata ed emarginata dal sistema politico turco dopo il golpe militare del 1980. Ma c’erano, sempre nell’ambito della sinistra, i sindacati e i giovani dei collettivi universitari e del Fikir Kulüpleri Federasyonu (Club dell’idea). Così come i curdi, nonostante la ridotta rappresentanza istituzionale del Partito per la pace e la democrazia (Bdp), dovuta, secondo alcuni osservatori, alla volontà di non compromettere il processo di pace in corso. C’erano i nazionalisti turchi con bandiere e immagini di Atatürk; gli armeni, che nel loro stand ricordavano come poco lontano da Gezi Parkı sorgesse un antico cimitero armeno; gli aleviti, gruppo da sempre considerato vicino all’area repubblicana e di sinistra, portatori di un islam vicino a quello di tradizione sciita. C’erano le associazioni femministe e Lgbt, che nel parco organizzavano spettacoli e forum di denuncia e informazione, e i movimenti ecologisti e ambientalisti che in un’area del parco avevano dato vita a un orto e a laboratori sull’agricoltura biologica.
La trasversalità della partecipazione ha rimesso in discussione quella stessa dicotomia tra forze kemaliste e forze islamiche così ampiamente utilizzata per decifrare le dinamiche interne alla Turchia. Ecco perché ricondurre il movimento di Gezi Parkı alle bandiere di Atatürk non solo è riduttivo ma rischia di collegarlo esclusivamente al passato, ignorando come le motivazioni della protesta riguardino il presente e il futuro di una città e di un’intera nazione.
Le ragioni dei padri e dei figli che hanno occupato per settimane il parco nel cuore di Istanbul vanno oltre la bevanda superalcolica nazionale, il rakı. Nessuna festa della birra! In Turchia una generazione, quella dei genitori di oggi, ha visto proteste simili sfociare nel terrore e nel sanguinoso colpo di Stato già citato. Ai figli oggi studenti che hanno ascoltato le testimonianze delle prigioni, dei dispersi e dei morti di un regime militare al potere nell’allora blocco occidentale, la laicità dello Stato, uno dei punti dell’ideologia kemalista, non basta. Il loro resistere nasce dalla paura concreta di una deriva autoritaria del potere assecondata da media silenti. Avvolti in nuvole di gas urticante e nauseante hanno rivendicato il diritto di manifestare senza essere minacciati con misure detentive «terroristiche» e di essere ascoltati.
Dal palco di Gezi Parkı non solo non si scandivano slogan antireligiosi ma tra gli occupanti vi erano anche gruppi di musulmani anticapitalisti. Il 5 giugno, una delle notti sacre all’islam (Miraç Kandili), già dal pomeriggio nel parco non si vendevano alcolici, dovunque si distribuivano çatal, i dolci tipici della festa e in serata erano previsti momenti di lettura del Corano e preghiere. D’altra parte, i nazionalisti scesi per le strade con slogan come «siamo i soldati di Atatürk» questa volta erano gomito a gomito con la sinistra radicale, anche curda.
Se nella lotta queste forze si sono ritrovate unite forse è proprio perché la modernizzazione e laicizzazione dello Stato sono un punto in comune di partenza più che di arrivo. Andare oltre e declinare quei princìpi in chiave più democratica sarà la sfida di un movimento nato dalla società civile, che ha dato vita a forme di resistenza spontanee contro ogni limitazione di diritti e libertà.

[1] Il network Taksim Dayanışması (Solidarietà Taksim) composto da 117 associazioni della società civile ha coordinato le proteste di Gezi Parkı a partire dalle prime occupazioni del 27 maggio 2013. taksimdayanisma.org
[2] Il termine gentrification indica cambiamenti socioculturali e fisici di aree urbane sottoposte a piani di cosiddetta riqualificazione urbana.