Gene Weingarten, Vanity Fair 3/7/2013, 3 luglio 2013
CHE COSA TI HO FATTO, BAMBINO MIO?
L’IMPUTATO ERA UN UOMO IMMENSO, ben oltre i 130 chili, ma la solennità del suo dolore e della sua vergogna lo facevano sembrare ancora più immenso. Ingobbito nella robusta sedia di legno che a fatica lo conteneva, inzuppava di singhiozzi silenziosi un fazzolettino dopo l’altro, e faceva nervosamente saltellare una gamba sotto il tavolo. In prima fila sedeva tra il pubblico sua moglie, stordita, e con lo sguardo vacuo si tormentava la fede nuziale. L’aula del tribunale era un sepolcro, i testimoni narravano episodi così dolorosi che era impossibile ascoltarli senza cedere alla commozione. L’infermiera pianse quando raccontò del giorno in cui i poliziotti avevano scortato l’imputato dentro il Pronto soccorso. Di come, praticamente catatonico, con gli occhi serrati oscillava avanti e indietro, chiuso nel suo indicibile tormento privato. Di come non parlava. Di come si aprì solo quando lei gli si sedette accanto e gli prese la mano tra le sue. Di come disse che non voleva essere sedato perché non meritava conforto al dolore. Di come disse che voleva sentire tutto, e poi morire.
L’accusa, secondo le leggi dello Stato della Virginia, parlava di omicidio colposo. A carico di Miles Harrison, 49 anni, persona mite, abile uomo d’affari, padre devoto. Fino al giorno in cui – sopraffatto dai problemi di lavoro e dalle chiamate al cellulare – dimenticò di lasciare all’asilo nido suo figlio Chase. Che, imprigionato nel seggiolino dell’auto per nove ore sotto il sole spietato di luglio in un parcheggio di Herndon, arrivò alla morte. Un errore inspiegabile e ingiustificabile, certo. Ma era un reato? Spettava al giudice deciderlo.
Durante una pausa dell’udienza, Harrison si alzò in piedi, e come per la prima volta vide il pubblico venuto a guardare la sua disgrazia. Abbassò gli occhi, vacillò, e gridò in uno straziante falsetto: «II mio povero bambino!». Gli alunni di scuola media che da tempo avevano programmato questa visita in tribunale, e che non si aspettavano certo di assistere a qualcosa del genere, vennero scortati fuori dall’aula nel giro di pochi minuti.
Nelle ultime file rimase, immobile nei tre giorni del processo, una donna che aveva affrontato un lungo viaggio solo per esserci. E che, a differenza della maggior parte del pubblico, non era parente o collega o amica dell’imputato.
«La parte inferiore del corpo era rosso-violace. Il colore verdastro dell’addome indica l’autolisi degli organi, e la morte sopraggiunge quando la temperatura corporea arriva ai 43 gradi...».
L’anatomopatologo parlava, e lei diventava una maschera di dolore. Quando il processo fu terminato, Lyn Balfour se ne andò senza attirare l’attenzione. Spettacolo come minimo raro, quello di due persone unite dalla stessa straziante storia. Unite dal fatto di avere accidentalmente ucciso i rispettivi figli.
«MORTE PER IPERTERMIA» è la diagnosi ufficiale. La realtà è quella di un genitore normalmente amoroso e premuroso che un giorno – indaffarato, distratto, confuso da uno sconvolgimento della routine quotidiana – dimentica il suo bambino. Negli Stati Uniti, dicono le statistiche, succede dalle 15 alle 25 volte all’anno. Fino a un paio di generazioni fa, era un evento decisamente raro. Poi, all’inizio degli anni Novanta, gli esperti decretarono che le cinture di sicurezza anteriori potevano uccidere i passeggeri più piccoli, e che quindi i bambini dovevano viaggiare nel retro, possibilmente sistemati in senso opposto a quello di guida. Non intuirono che la diminuita visibilità avrebbe comportato conseguenze tragiche. E del resto, come non capirli? A quale genitore, in fondo, capita di dimenticare suo figlio?
Capita ai ricchi, a quanto pare. E ai poveri, e ai medi. Ai giovani come ai vecchi. Alle madri come ai padri. Ai distratti cronici ma anche agli ossessivamente organizzati. Ai plurilaureati come ai semianalfabeti. È successo, negli ultimi anni, a un dentista, a un impiegato delle poste, a un assistente sociale, a un poliziotto, a un contabile, a un soldato, a un legale, a un elettricista, a un pastore protestante, a un aspirante rabbino, a un’infermiera, a un muratore, a un vicepreside, a uno psicologo, a un professore universitario, a un pizzaiolo, a un pediatra, a un ingegnere spaziale.
L’anno scorso è successo in un giorno – il giorno dei record – tre volte. E ogni volta la storia è leggermente diversa, ma c’è qualcosa che non cambia: il momento in cui il genitore si rende conto di quello che è successo, di solito in seguito a una telefonata dell’altro genitore, seguita da una pazza corsa verso la macchina, e dalla scoperta peggiore che ci sia.
Anche se il macabro epilogo può essere ogni volta diverso. Il padre che, per farla finita, ha cercato di strappare la pistola dalle mani del poliziotto intervenuto. La madre che, al termine della giornata di lavoro, si è messa alla guida della propria automobile per andare a prendere all’asilo nido il figlio che pensava di averci lasciato, senza rendersi conto che il figlio era dietro di lei, morto sul sedile posteriore. L’uomo d’affari del Tennessee che per tre volte ha sentito partire l’allarme sonoro del sensore di movimento sull’auto. Ogni volta ha pensato si potesse trattare di un tentativo di furto, ma ogni volta ha guardato e non ha visto nessuno che stesse cercando di rubargli la vettura. Così alla fine ha disattivato l’allarme con il telecomando ed è tornato tranquillo al lavoro.
Nessun errore umano mette altrettanto in crisi le opinioni della nostra società sulla colpa e sul perdono. In quaranta casi su cento, negli Stati Uniti, l’autorità giudiziaria attribuisce la tragedia a un incidente, a un blackout che assegna al genitore una pena infinitamente più severa di quella che un qualunque giudice potrebbe mai comminare. Negli altri sessanta, in condizioni pure identiche, la colpa viene invece ritenuta così grande e devastante da meritare una punizione.
LA GIURIA DEL processo HARRISON ascoltò la storia di questa coppia di quarantenni che non avevano figli e che disperatamente desideravano averne, e dei loro tre viaggi a Mosca, e delle visite negli orfanotrofi di provincia, e di come trovarono uno splendido bambino di 18 mesi, e di come Harrison fosse un padre innamorato che passava i pomeriggi a giocare con il figlio, e dell’attenzione con cui aveva scelto un nido capace di compensare con la cura e l’affetto le carenze affettive che avevano caratterizzato l’inizio della vita di Chase.
La madre di Harrison descrisse un padre affettuoso. La moglie Carol, distrutta, raccontò della telefonata – più che una telefonata, un urlo interminabile – che Harrison le aveva fatto, dopo aver scoperto quello che era successo. Alla fine il giudice lo dichiarò non colpevole. Harrison annaspò, singhiozzò, cercò di restare in piedi. Poi le gambe si piegarono, e crollò in ginocchio.
SE NON È OMICIDIO COLPOSO, che cos’è? Un incidente?
«Definizione insufficiente», dice Mark Warschauer, esperto di fama mondiale dell’apprendimento delle lingue, e professore della Universtiy of California di Irvine. «Perché significa che la tragedia non poteva essere evitata. E invece, lo sappiamo tutti che non è così».
Un giorno d’estate del 2003, tornando in ufficio dopo pranzo, notò una folla intorno a un’auto nel parcheggio, e la polizia che sfondava i finestrini. Solo avvicinandosi si rese conto che l’auto era sua. E solo in quel momento pensò a Mikey, il figlio di 10 mesi che avrebbe dovuto portare al nido, in mattina.
Mikey era già morto.
Warschauer progettò a lungo il suicidio, Gli sembrava l’unica soluzione accettabile. Poi, senza che passassero il dolore e il senso di colpa, quella voglia di autodistruzione passò. E lui decise di capire perché.
«LA MEMORIA È UNA MACCHINA IMPERFETTA», dice David Diamond. «Pretende di assegnare priorità, ma non sempre ci riesce. Se ti capita di dimenticare il tuo telefonino, ti può capitare di dimenticare tuo figlio». Professore di Fisiologia molecolare, Diamond ha verificato che in certe circostanze la parte più sofisticata del nostro processo mentale può finire ostaggio di un sistema di memoria alternativo e primordiale. Come dire, stupido.
Anche a lui è capitato di dimenticare che la nipotina era addormentata nel seggiolino dietro. Se ne è ricordato solo grazie a sua moglie. Capisce che cosa sarebbe potuto succedere, se fosse stato da solo con la piccola. Peggio: lui capisce esattamente perché sarebbe potuto succedere. Il cervello umano, dice, è una splendida macchina appoggiata in cima a una discarica di versioni rudimentali. Sopra ci sono la corteccia prefrontale, che pensa e analizza, e l’ippocampo, che immagazzina la memoria recente. Sotto, però, ci sono i gangli basali, che non sono molto diversi da quelli delle lucertole. E che, nelle operazioni di routine, vengono richiamati in servizio come una sorta di pilota automatico. Quando andiamo al lavoro, la corteccia e l’ippocampo programmano la giornata, mentre sono i gangli a guidare la macchina. Ecco perché capita di andare dal punto A al punto B senza ricordare con chiarezza la strada che si è percorsa.
Di solito, questa divisione del lavoro funziona. Ma, a volte, no.
«E la qualità della cura genitoriale è totalmente irrilevante», dice. Piuttosto, pesano lo stress, la mancanza di sonno, lo sconvolgimento della routine. «C’è un caso, in Virginia, che non riesco a dimenticare. La donna si chiamava...».
Lyn Balfour?, suggerisco.
«Esatto, Lyn Balfour. La tempesta perfetta».
SONO PASSATI DUE ANNI dal giorno di primavera in cui lasciò Bryce, 9 mesi, chiuso in auto nel parcheggio davanti all’ufficio di Charlottesville dove lavora come impiegata. Lo psicologo inglese James Reason ha coniato il termine «modello del formaggio svizzero» per spiegare i casi, come il suo, in cui gli errori disastrosi avvengono anche nei modelli organizzativi più sofisticati. Si sovrappongono cinque-sei fettine di formaggio, ognuna con i suoi buchi che rappresentano debolezze abbastanza insignificanti. Ma, eccezionalmente, i buchi si allineano e arriva la catastrofe.
Quel giorno, in particolare, Lyn era stata sveglia quasi tutta la notte, prima per occuparsi del bambino di un’amica che aveva dovuto portare il cane dal veterinario per un’emergenza, poi per occuparsi di Bryce, che era raffreddato. E siccome era raffreddato, si addormentò in auto – cosa che non capitava quasi mai – quindi non fece rumore. E siccome il seggiolino era difettoso e Lyn aveva provato ad aggiustarlo, quel giorno – a differenza di ogni altro giorno – era sistemato dietro il suo sedile, invisibile dallo specchietto retrovisore. E siccome l’altra auto di casa era stata prestata a un parente, Lyn aveva dovuto accompagnare il marito al lavoro, quindi aveva appoggiato la borsa dei cambi del bambino non accanto a sé come al solito, ma dietro, dove di nuovo non la vedeva. E siccome c’era un familiare con grossi problemi e una crisi al lavoro, aveva passato l’intero tragitto al cellulare. E siccome la babysitter era nuova, non aveva il numero di ufficio di Lyn registrato nei suoi contatti. Cosi, quando non vide arrivare il bambino, potè solo chiamare il cellulare di Lyn, che nel frattempo era sistemato, in silenzioso, nella tasca della giacca. I buchi allineati.
«Non sento il bisogno di perdonarmi», dice. «Perché so che quello che ho fatto, non l’ho fatto apposta».
È stata sua l’idea di presentarsi al processo di Miles Harrison. Durante una pausa gli si è avvicinata, lo ha abbracciato, gli ha sussurrato nell’orecchio la sua storia, gli ha detto che sapeva che lui è un buon padre, che non si doveva vergognare. Miles è scoppiato in singhiozzi.
CERTO, ESISTONO CASI di degrado e abbandono. Ma le storie come quella di Lyn Balfour, di solito, non finiscono nemmeno in tribunale. A lei è andata diversamente. La pubblica accusa è stata insolitamente, incomprensibilmente dura. Rischiava 40 anni di carcere. Liberata su cauzione, le è stato proibito di stare da sola con minorenni, a partire dai suoi figli. Jarrett, il marito, ha dovuto farsi mandare in missione in Iraq per raggranellare i soldi per la difesa.
John Zwerling, il suo avvocato, ha fatto sentire alla giuria la registrazione della chiamata di emergenza di una passante, proprio nel momento in cui Lyn, nel pomeriggio, dopo aver notato al cellulare la chiamata persa della baby sitter, la richiama tranquilla, convinta che Bryce sia con lei, e in un attimo capisce che cosa è successo, e corre al parcheggio, e vede oltre il finestrino la manina inerte.
La si sente urlare: «Mio Dio, nooooo!».
Poi, per qualche secondo, niente.
Poi, un grido agghiacciante: «No, ti prego, nooooooo!».
Ancora qualche secondo di silenzio.
Infine: «Dio, per favore, noooooo!».
Le pause sono quelle in cui Lyn – donna temprata da una vita difficile, veterana dell’esercito, decorata al valore per il servizio in Iraq – tenta disperatamente di rianimare il suo piccolo praticandogli la respirazione bocca a bocca. In lei, in quel momento, convivono due persone. La donna perfetta e la madre che ha lasciato succedere l’impensabile.
Dopo aver ascoltarlo il nastro, la giuria ci ha messo poco più di un ora per pronunciare il verdetto di non colpevolezza.
KANSAS CITY, JANETTE FENNELL gestisce un’organizzazione no profit, Kids and Cars, che promuove misure di sicurezza per prevenire tragedie come questa, e che raccoglie un macabro archivio di tutti i casi avvenuti negli Stati Uniti.
«La gente che giudica», dice, «non si rende conto che nella maggior parte dei casi questi sono genitori presenti e affettuosi, di quelli che comprano cancelletti di plastica per evitare che i bambini cadano giù per le scale. Sono blackout di memoria, non di amore. C’è chi dice: posso capire dimenticare un bambino per due minuti, non per otto ore. Non si rendono conto che questi genitori sono totalmente tranquilli perché convinti di aver lasciato i bambini in buone mani».
Portarli in tribunale, secondo lei, è un’inutile crudeltà. Bisognerebbe, invece, costringere l’industria automobilistica a fornire seggiolini con sensori anti-abbandono – in commercio in America ci sono già, ed è stata presentata una legge per renderli obbligatori – e prevenire sensibilizzando i genitori sulle conseguenze atroci di un attimo di distrazione. Non mi guarda negli occhi quando cita il caso più straziante che ricordi: «Una bambina che, prima di morire, si è strappata tutti i capelli». Il problema, dice Janette, è semplice. Troppa gente pensa: a me non succederebbe.
«MERITEREBBE LA PENA DI MORTE». È soltanto uno – e neanche il più cattivo – dei commenti alla notizia della morte del figlio di Miles Harrison. Ed Hickling, psicologo, crede di conoscere il perché di tanta durezza. Gli esseri umani, dice, hanno bisogno di credere che l’universo non sia spietato, che le tragedie non succedano in modo casuale, che la catastrofe possa essere evitata con un minimo di vigilanza e responsabilità.
«Non ci piace sentirci ricordare quanto siamo vulnerabili. Così, quando succedono cose del genere, tendiamo a incasellarle in una categoria diversa da quella in cui incaselliamo noi stessi. Non accettiamo di assomigliare a questi genitori: sarebbe troppo terrificante. Quindi devono essere mostri».
Ecco uno dei commenti apparsi sul sito Charlottesville News dopo l’assoluzione di Lyn Balfour: «Se aveva troppe cose a cui pensare, forse avrebbe dovuto tenere le gambe chiuse invece di figliare. Meriterebbe di essere chiusa a chiave in un’auto sotto il sole, per vedere l’effetto che fa».
«LA GENTE MI CREDE FORTE», dice Lyn Balfour, e intanto controlla il pannolino di Braiden, la sorellina nata dopo Bryce. «La verità è che il dolore ho imparato a nasconderlo, perché non credo di avere il diritto di mostrarlo al mondo. Vorrei sparire in un posto dove nessuno sappia chi sono e che cosa ho fatto, ma non posso. Io sono la donna che ha ucciso suo figlio, e devo continuare a esserlo. L’ho promesso a Bryce». La promessa, spiega, l’ha fatta in ospedale, mentre teneva tra le braccia il corpo senza vita del suo bambino. Gli ha promesso di parlare, di non nascondersi, di fare di tutto perché la storia della sua tragedia serva a impedirne altre.
«Il dolore non passa e non diminuisce. Semplicemente, lo nascondo». Preferisce non pensare a come è morto Bryce. Un medico di buon cuore le ha detto che probabilmente suo figlio non ha sofferto troppo, e lei ha scelto di crederci, di credere che il suo bambino sia morto senza paura, se ne sia andato via circondato e consolato dagli angeli.
«A 16 anni sono stata violentata, sono rimasta incinta, ho abortito. E quando l’ho fatto, ho chiesto a Dio di prendersi cura di quel bimbo, e di essere così buono da restituirmelo un giorno, quando sarei stata in grado di occuparmi di lui». Si asciuga una lacrima. «A volte mi chiedo se non sono stata punita. Ho ucciso un bambino, e un altro bambino mi è stato strappato». Guarda la piccola Braiden. «A volte vorrei essere morta di parto. Così a Jarrett avrei lasciato Braiden, e io sarei tornata con Bryce».
SEDUTO IN UNO STARBUCKS, Miles Harrison prende un tovagliolino dietro l’altro per asciugarsi le lacrime. «Ho fatto tanto male a mia moglie, eppure mi ha perdonato, e questo mi fa stare ancora peggio. Perché io non riesco a perdonarmi».
A casa, lui e Carol hanno mantenuto la cameretta di Chase esattamente come era quando c’era lui. «A volte guardiamo le foto insieme, e vedo che Carol piange. Cerca di non farsi notare, ma io la vedo». Sa che difficilmente gli permetteranno di nuovo di adottare. La voce si rompe nei singhiozzi: «Le ho rubato anche la possibilità di essere madre». Dentro il locale, i clienti si girano a guardarci. «Era la mamma migliore del mondo».
BRAIDEN HA 9 mesi e mezzo, esattamente l’età di Bryce quando morì. Lyn è incinta di nuovo, e di nuovo soffre di incubi. Prima della tragedia, ogni tanto sognava di uccidere accidentalmente Bryce, affogandolo: sogni che allora le mandava Dio, dice, per prepararla. Di recente, però, ha sognato di aver perso la presa del passeggino di Bryce, facendolo finire in mezzo al traffico, ma non pensa che qualcosa succederà anche alla sua piccola.
Con Jarrett le tensioni ci sono, ma entrambi si dicono sicuri che il matrimonio durerà. Ad aiutarli c’è la presenza di Braiden, e l’attesa del bambino che verrà: «Siamo fortunati. Perdere un bambino e non poterne avere un altro, che disperazione». Ecco perché sta prendendo una decisione. Nessuno può impedirglielo, ha sentito gli avvocati. Basta trovare un donatore di sperma e una donatrice di ovuli: lei il bambino può partorirlo, ma non vuole che sia suo. Vedendomi disorientato, chiarisce: Miles Harrison e sua moglie Carol meritano un altro figlio. Sarebbero genitori straordinari. Se non potranno adottare di nuovo, ci penserà lei. Sarà il suo regalo.