Tonia Mastrobuoni, la Stampa 4/7/2013, 4 luglio 2013
GIOVANI, IL MIRACOLO “GERMANICO”
Un antico proverbio dice che «Dio ha fatto il mondo, ma gli olandesi hanno fatto i Paesi Bassi». Abituati da secoli a difendersi dalle furibonde intrusioni del Mare del Nord, i sudditi di Re Guglielmo usano il termine «polder» per indicare la capacità di strappargli via pezzi di terra, ma anche per definire il dialogo sociale tra governo, imprese e sindacati. «Polder» è la politica del consenso che ha consentito agli olandesi di uscire dal «Dutch disaster», dall’impasse economica degli Anni 80, per diventare uno dei Paesi con la disoccupazione giovanile più bassa d’Europa, assieme alla Germania e all’Austria. Questa sorta di «eccezione germanica» nel cuore del Vecchio continente - che stride con i picchi di disoccupazione under 30 che stanno affliggendo soprattutto l’area mediterranea -, dipende in sostanza da tre fattori.
Il primo è la capacità di crescere. I governi che si sono succeduti negli Anni 80 e 90 nei Paesi Bassi, e negli Anni 2000 in Germania, hanno affrontato, per dirla con l’economista del College of Europe di Bruges, Paolo Guerrieri, «il problema macro». Il risanamento dei conti pubblici, la moderazione salariale concordata in cambio di posti di lavoro e sgravi fiscali (grazie al «polder», appunto), un’incisiva riforma delle pensioni e l’introduzione di vincoli forti ai sussidi di disoccupazione, hanno garantito al Paese di Mark Rutte una ripartenza che già negli Anni 90 l’ha proiettata su ritmi molto più alti della media europea.
In Germania, bollata con la nota copertina dell’ Economist come «malata d’Europa» all’inizio dello scorso decennio, un modello simile di dialogo tra imprenditori e sindacati a quello olandese ha consentito di superare senza conflitti e con moderazione salariale le fasi più acute delle recenti recessioni. In più, nel 2005 il governo Schroeder con la sua nota Agenda 2010 ha alleggerito il costoso modello sociale tedesco ponendo le basi di quello che gli economisti avevano già battezzato, alla vigilia dell’attuale crisi, da subprime, il «secondo miracolo economico» dopo quello degli Anni 50. Conclude Paolo Guerrieri: «È ovvio che qualsiasi politica di sostegno al lavoro non può prescindere da un quadro economico sano», insomma da tassi di crescita robusti.
È ancora dalla Storia che gli olandesi hanno imparato una seconda lezione fondamentale, secondo Andrea Ichino, economista dell’Università di Bologna. «Dopo secoli di guerre religiose - osserva - hanno accordato una totale autonomia alle scuole: è fondamentale per consentire agli studenti e ai professori di disegnare percorsi formativi coerenti e in sintonia con le esigenze del territorio e delle imprese». In Olanda, in sostanza, «non ragionano a compartimenti stagni, come da noi, dove scuola e lavoro sono rigidamente separati». Il risultato è che già al liceo quasi due terzi degli olandesi ha fatto almeno un’esperienza di lavoro e oltre la metà degli studenti frequenta un istituto professionale.
Anche in Germania e in Austria il passaggio tra scuola, università e lavoro è molto più fluida che nei Paesi della fascia mediterranea. Il sistema cosiddetto «duale» garantisce una sana interazione tra educazione e mondo professionale. Ed è basata, nel Paese di Angela Merkel, sul riconoscimento statale di ben 344 mestieri. Spiega Daniel Gros, direttore del think tank Ceps di Bruxelles che «è il motivo per cui in Germania il tasso di disoccupazione giovanile è tradizionalmente doppio e non triplo rispetto alla media come in Italia». Il nostro Paese è afflitto invece, aggiunge Tito Boeri, economista della Bocconi, da «un disallineamento tra educazione e lavoro». Non solo: Andrea Ichino ricorda che «il 30% degli studenti universitari italiani è insoddisfatto di quello che fa».
Il terzo motivo del successo dell’area «germanica» è la mancanza di un altro dualismo, quello nefasto tra lavoratori iper tutelati e la gigantesca galassia dei precari, cioè tra chi è protetto contro il licenziamento e chi ha una data scritta sul contratto. Soprattutto nei periodi di recessione, i primi ad andare a casa sono questi ultimi. E nella stragrande maggioranza dei casi sono giovani.